Jacqueline Bisset, un fiore d'acciaio a Locarno

L'attrice inglese ripercorre la lunga carriera costellata di incontri con maestri come Cukor, Truffaut, Chabrol, Polanski, Monicelli e Stanley Donen.

Bellissima a 69 anni, Jacqueline Bisset è cortese, ma distante. Il suo celebre sguardo seduttivo inchioda l'interlocutore quando qualcosa non la convince. Osservando i comportamenti della diva, approdata a Locarno per presentare nella splendida cornice di Piazza Grande la proiezione di uno dei capolavori di George Cukor, Ricche e famose, traspare quella ferrea volontà che l'ha condotta a diventare una delle attrici più richieste a Hollywood, unita a una fermezza tutta inglese, che nel corso di una invidiabile carriera internazionale l'ha aiutata a stare lontana dalle sirene del glamour. Approfittando dell'occasione di una chiacchierata con il pubblico svizzero, la Bisset ci tiene a mettere le cose in chiaro fin dal principio puntualizzando quello che è stato l'inizio di una carriera luminosa. "I miei primi lavori sono stati servizi fotografici. Non ho mai voluto fare la modella, ma avevo bisogno di guadagnare soldi per frequentare una scuola di recitazione. Ricordo quei lavori come una sorta di incubo, ma in quell'occasione ho incontrato alcuni grandi fotografi che mi hanno insegnato tutto sulla luce, elemento essenziale del cinema". Il tuo primo lungometraggio è Cul de Sac di Roman Polanski.
Jacqueline Bisset: Ho incontrato Polanski a Londra dopo la fine delle riprese di Repulsione. Io mi trovavo a un pranzo dove non conoscevo nessuno e lui mi ha detto: "Sei un'introversa. Potresti essere un'ottima attrice". A Londra la professione dell'attore non era benvista e la mia famiglia era perplessa, ma Roman stava facendo il cast per Cul de sac. Mi ha chiesto di perdere peso e io l'ho fatto. Mi ha consigliato un dottore a Chelsea che praticava iniziezioni di estratti di mucca incinta per aiutarmi a dimagrire. Sono quasi svenuta, ma alla fine ho perso il peso richiesto. Poi Roman mi ha sottoposto a due provini. E' stata un'esperienza magica. E' un uomo affascinante, ma anche molto duro. Per me non è stato semplice.

L'esperienza con Roman ha accresciuto il tuo appetito nei confronti del cinema?
Assolutamente sì, ma all'epoca non avevo riferimenti precisi. Per fortuna poi i lavori sono arrivati. Credo di aver girato una novantina di film in tutto e ho incontrato persone di ogni tipo.

Poi ti sei trasferita a Hollywood e sei diventata una star. Hai lavorato con Steve McQueen, Dean Martin e tanti altri celebri divi.
Dopo l'esperienza con Polanski ho avuto un piccolo contratto e sono apparsa in Casino Royale. Poi mi ha chiamato Stanley Donen per affiancare Audrey Hepburn e Albert Finney in Due sulla strada. Ricordo che ho raggiunto il set una settimana prima dell'inizio delle riprese perché non conoscevo per niente Stanley e volevo saggiare l'atmosfera. Sono stati giorni tristi perchè ero nella più completa solitudine. Poi finalmente ho iniziato a lavorare e ad avere contatti umani.

E poi Hollywood ti ha chiamato.
Ho avuto i primi contatti con gli USA e sette anni dopo avevo una carriera americana, era qualcosa di davvero inaspettato per me. Conoscevo poco gli USA, mi piaceva l'energia di un posto in cui puoi sentirti libera, ma Hollywood è un posto transitorio. Trovare un lavoro era molto difficile e anche convivere con i paparazzi, ma se lavori è un posto davvero piacevole.

Tra i personaggi più interessanti che hai incontrato chi ricordi con piacere?
Non dimenticherò mai il mio incontro con Frank Sinatra, con cui ho girato The Detective. I miei assistenti mi hanno preparato portandomi dal parrucchiere e dall'estetista. Dovevo essere perfetta perché non ero la prima scelta. Quel ruolo avrebbe dovuto essere di Mia Farrow, ma lei non era disponibile. Ero eccitata. Per me Sinatra rappresenta mio padre quando era di buon umore. Ci siamo incontrati e lui si è presentato. Era un uomo cordiale, gentile, ma nel profondo sembrava triste.

Tra tanti capolavori che hai girato ce n'è uno a cui i cinefili sono particolarmente legati, Effetto Notte.
Nel 1972 sono tornata in Francia per girare Effetto Notte. Quel film rappesentava il tipo di opera in cui volevo recitare ed ero entusiasta all'idea di poter lavorare con Truffaut. Ogni attore sognava di trovarsi su un suo set. Sono arrivata all'aeroporto e Truffaut era lì a darmi il benvenuto con un enorme mazzo di gladioli. Ero a Sant Paul De Vence, nel sud della Francia. Pioveva molto e in hotel non c'era nessuno eccetto Simone Signoret che se ne stava seduta e incuteva terrore. Per me lei era una leggenda, era anziana, ma ancora terribilmente affascinante. Dopo l'hotel ho diviso un appartamento con Nathalie Baye, che era all'inizio della sua carriera. E' stato un periodo davvero eccitante. Il mio francese non era ancora fluente ed ero terrorizzata, ma mi hanno rassicurato dicendomi che non interpretavo una donna francese perciò mi era permesso fare degli errori.

Cosa ricordi di Truffaut?
Nella vita Truffaut aveva un grande senso dello humor, ma lo tirava fuori solo quando si sentiva a suo agio. Non era interessato al cibo, ma solo al bere. Nei film interpretati da Jean-Pierre Leaud emerge il disprezzo nei confronti delle abitudini francesi di guidare per ore per mangiare in un ristorante. Guardando i suoi film c'è tanto di lui. Invece era molto interessato ai bambini e alle donne.

Un altro autore francese che ha segnato la tua carriera è Chabrol, con cui hai girato Il buio nella mente.
Volevo tanto lavorare con Chabrol. Il suo è un cinema satirico, denunciava la borghesia e io interpretavo la tipica borghese. Mi sono sentita a disagio nel ruolo che mi ha affidato perché non ne condividevo la psicologia. Con Chabrol non c'era niente di improvvisato, tutto veniva pianificato giorni prima. Giravamo quasi sempre in interni. Occorreva essere veloci, non noiosi, obbedienti, ma allo stesso tempo essere in grado di sviluppare il personaggio in modo autonomo. Era molto più attento alle altre attrici che a me, e lo capisco perché le protagoniste erano Isabelle Huppert e Sandrine Bonnaire. E' stato molto gentile con me, ma l'ho sempre sentito distante.

Veniamo a Ricche e famose
E' stato meraviglioso vedere il film qui in Piazza Grande, di fronte al pubblico così numeroso. E' un film che rappresenta tanto per me. Ho imparato a usare il body language proprio con Cukor e John Huston, ho capito che il corpo parla quanto la voce. Quando si inizia a recitare molte attrici sono rigide, non sanno dove tenere le mani, ma gradualmente arrivi a dimenticare la fisicità e a entrare in processo musicale in cui ogni parte del corpo contribuisce alla perfomance. In questo Cukor era un maestro.

Dopo Ricche e famose, hai continuato a fare la produttrice?
Avrei voluto continuare, ma ho toccato con mano un aspetto molto duro di hollywood. All'epoca le donne attrici che producevano non erano molte, c'era la Streisand, ma era soprattutto un club maschile. La mia relazione con Cukor non ha aiutato. Rischiavo di perdere il contatto con la mia parte femminile, era un mondo troppo stressante perciò ho deciso di rallentare per vivere la mia vita serenamente. La gente crede che la vita di un'attrice sia glamorous, ma non è sempre così. Nel mio caso il sangue scozzese mi aiuta a essere forte, ma ho avuto tanti momenti di sconforto perché ogni film è un'avventura in cui sei sola. Può andare bene, ma anche male.

Cos'è successo dopo?
Dopo ho girato Sotto il vulcano, il mio secondo lavoro con John Huston. Era un uomo molto aristocratico e molto distante, un vero macho, ma di prima classe.

E invece l'esperienza di Domino con Tony Scott com'è stata?
Non sono stata a lungo sul set, ma posso dire che Tony aveva l'energia di un ragazzino, era un entusiasta. Non riesco a capire come possa essersi ucciso.

Cosa rende un regista grande?
Il regista è il nonno del set. Deve essere autoritario, conoscere il proprio lavoro, essere aperto, consapevole. Deve saper mettere la macchina da presa nel posto giusto e deve capire gli attori. C'è l'attore che dà il meglio nei primi due take e quello che migliora con il passare del tempo e tu devi capirlo. Ci sono registi che non si interessano agli attori. Non ho mai capito perché facciano questo lavoro se non sono interessati alle persone. Ho incontrato registi di temperamento, quasi tutti anziani come Cukor, Huston, Monicelli, Comencini. Anche Roman Polanski aveva un carattere forte, ma lui era giovane. Un regista deve saper creare un contatto con l'attore. Le prove ti danno l'occasione di giocare, di capire il mondo del tuo personaggio. Un attore deve essere libero di sperimentare in libertà per acquistare fiducia in se stesso e lo può fare solo durante le prove.

Il tuo nuovo lavoro è Welcome to New York, un film di Abel Ferrara sul caso Strauss-Khan. Confermi?
Sono stata chiamata su Skype da Abel Ferrara due mesi fa. Abbiamo parlato per un quarto d'ora. Lui è molto americano, molto selvaggio. E' così diverso dalle persone che conosco e non so perché abbia chiamato proprio me. Non sapevo se sentirmi pronta per un lavoro simile, ma senza dubbio ha colpito la mia immaginazione.

Come fai a distanziarti dai personaggi che interpreti? Come ti rigeneri nel tempo libero?
Credo nel sonno, anche se non ho mai imparato a rilassarmi. Faccio molto esercizio fisico e sono molto attiva. Leggo, cucino, ma non sono molto amante delle nuove tecnologie.

C'è qualcuno con cui vorresti lavorare, ma ancora non ti è capitata l'occasione?
Michael Haneke e Javier Bardem. Penso siano straordinari. Mi piacerebbe fare un film con Charlotte Rampling, con cui di recente ho passato molto tempo. Sarebbe bello interpretare due sorelle, visto che in passato ci somigliavamo molto. Ci sono tante persone fantastiche con cui vorrei lavorare, ma alla fine è il materiale che conta.