Quello resta, tutto ciò che eravamo e tutto ciò che credevamo da bambini, tutto quello che brillava nei nostri occhi quando eravamo sperduti e il vento soffiava nella notte.
La sfida, si sapeva, era a dir poco titanica, di quelle in grado di far tremare le vene ai polsi anche agli sceneggiatori più navigati: condensare un volume di milletrecento pagine, o meglio la metà di questo volume, in poco più di due ore di durata. Centotrenta minuti nel corso dei quali il regista Andrés Muschietti ha dovuto delineare i sette co-protagonisti del suo film, i membri del cosiddetto Club dei Perdenti, e far prendere forma e colore ai loro incubi, sia individuali che collettivi.
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Da un lato una massiccia quantità di eventi e di sottotrame, da rielaborare in un intreccio quanto più possibile coeso, e dall'altro la profondità psicologica e le infinite suggestioni di uno dei più importanti racconti di formazione della narrativa contemporanea: trasporre il capolavoro di Stephen King sul grande schermo costituiva un'impresa a dir poco proibitiva, e la pellicola appena approdata nelle sale è stato il frutto di una gestazione lunghissima e spesso travagliata, a partire dal passaggio di testimone da Cary Fukunaga (autore della prima versione del copione) a Muschietti. Eppure il risultato, al di là del suo eccezionale responso al box office, sembra aver soddisfatto tutti o quasi. E mentre la Warner Bros ha già avviato la pre-produzione del secondo capitolo del dittico, proviamo ad analizzare elementi di forza e punti deboli di questo It cinematografico, anche in relazione a cosa potremo attenderci dal film in arrivo fra due anni...
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Cosa resterà degli anni Ottanta?
Partiamo dall'adattamento, vale a dire il vero banco di prova dell'eventuale riuscita della pellicola, lo scoglio più insidioso da superare per condurre la nave in porto. Con una sceneggiatura firmata a sei mani e la necessità di 'estrapolare' dall'opera di King solo i capitoli dedicati all'adolescenza dei personaggi (il romanzo, com'è noto, è basato invece su una continua oscillazione fra le varie linee temporali), la riduzione di It per il cinema era una prova di mostruosa difficoltà, ma alla resa dei conti superata a pieni voti: come messo in evidenza anche nella recensione del film, l'It di Muschietti 'tradisce' volutamente la propria fonte letteraria dal punto di vista della trama, concedendosi diverse libertà (non vi sveliamo altro per non rovinarvi la sorpresa), ma rimane comunque fedele allo spirito del libro e alla natura dei suoi piccoli eroi.
Tra le modifiche, risulta funzionale pure la decisione di spostare l'ambientazione dal biennio 1957/1958 alla fine degli anni Ottanta: uno 'slittamento' che contribuisce ad attualizzare non tanto la storia in sé, quanto l'immaginario di riferimento in cui collocare questo piccolo gruppo di teenager, e che si riflette ovviamente sulle scelte per il look (in particolare quello di Beverly Marsh) e la colonna sonora (i Cure e i New Kids on the Block, questi ultimi anche oggetto di un paio di citazioni). Di conseguenza, se il 'presente' del romanzo (il 1984/1985) coincideva con gli anni della sua stesura, il secondo capitolo del film racconterà le vicissitudini dei sette Perdenti ai giorni nostri. Ma l'intreccio del prossimo It, stando alle anticipazioni di Muschietti, avrà anche un'altra caratteristica distintiva: la compresenza fra il piano del passato e quello del presente. Un recupero, dunque, della struttura del romanzo di King, nonché un ulteriore fattore di complessità per chi dovrà curare la sceneggiatura.
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Il Club dei Perdenti: piccoli eroi crescono
È l'altro, indiscutibile elemento di forza del film di Andrés Muschietti, il passo fatidico che era indispensabile non sbagliare: la selezione del cast. E il risultato può essere considerato un successo a tutto campo: dall'intenso Bill Denbrough di Jaeden Lieberher (già in St. Vincent e in Masters of Sex) alla carismatica Beverly Marsh di Sophia Lillis, passando per il loquace e ironico Richie Tozier di Finn Wolfhard (ovvero il giovanissimo 'eroe' del fenomeno televisivo Stranger Things), i membri del Club dei Perdenti possono contare su interpreti che aderiscono magnificamente ai rispettivi ruoli, restituendone le peculiarità, le paure e soprattutto la simpatia. Se questo coming of age mascherato da horror soprannaturale è stato in grado di conquistare un pubblico così ampio, il merito è anche e senza dubbio dei sette irresistibili comprimari che si battono contro il diabolico Pennywise.
Ora, però, l'obiettivo è altrettanto arduo: trovare una squadra di attori quarantenni per incarnare i Perdenti da adulti. E per questi attori, a nostro avviso, è difficile pensare a un manipolo di superstar: non tanto per ragioni di budget, quanto perché una sfilata di volti notissimi del cinema rischierebbe di compromettere, in qualche misura, il nostro livello di immedesimazione nei confronti di personaggi inesorabilmente fragili e 'comuni'. I Perdenti, nel romanzo, non sono eroi nel senso hollywoodiano del termine, ma uomini qualunque strappati alle loro esistenze più o meno ordinarie per rituffarsi in un orrore semidimenticato: e se Muschietti vuole mantenere tale assunto, sarebbe un errore schierare nel prossimo capitolo un team di pseudo-Avengers con divi di immediata riconoscibilità. Magari con un'eccezione: per il ruolo di Beverly circola già da tempo il nome di Jessica Chastain (già diretta da Muschietti ne La madre), un'attrice strepitosa che saprebbe esprimere alla perfezione il magnetismo e il fascino del personaggio, ma pure la sua insicurezza autolesionista. Altra opzione, meno scontata ma da non sottovalutare: Julianne Nicholson, che come la Chastain presenta una notevole somiglianza con i tratti di Sophia Lillis.
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Stranger It: fra terrore e inquietudine
In termini di trasposizioni e di 'tradimenti', al di là degli aspetti più basilari (l'ambientazione, la trama e i personaggi), è ancora più significativo però analizzare il vero nucleo del rapporto tra il film e il romanzo: lo 'spirito' di It. Come osservato nella recensione di Luca Liguori: "i jump scare sono molteplici e di grandissima efficacia e tutto il film si limita a voler essere genuinamente spaventoso a tratti, piuttosto che inquietante e disturbante nella sua interezza". Ecco, in questa frase si può riassumere l'approccio dell'operazione di Andrés Muschietti: una pellicola che di It riproduce in primo luogo la dimensione schiettamente fanciullesca, il brivido dell'ignoto e dell'avventura, l'eccitazione di un'estate di grandi amicizie (gli echi di Stand by Me non potrebbero essere più forti) e di primi palpiti amorosi e sessuali. Una pellicola che, per quanto riguarda le convenzioni dell'horror, sembra voler prendere a modello sia quei canoni già ben sviluppati nel recente Stranger Things, sia l'efficace semplicità dei jump scare in stile The Conjuring, un'altra saga orrorifica nata non a caso sotto l'egida della Warner Bros.
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Il problema - e qui sorge la nostra prima, vera perplessità verso l'It di Muschietti - è che l'It di Stephen King è tutto fuorché semplice: i suoi numerosi momenti di orrore non possono essere paragonati al brivido istantaneo e fugace di uno jump scare cinematografico, ma scaturiscono da un'inquietudine costante e palpabile, che si insinua nella nostra mente pagina dopo pagina. Un'inquietudine quasi fisica, assimilabile al senso di malessere e di claustrofobia sprigionato dalla cittadina di Derry, teatro di un Male le cui radici affondano in epoche ancestrali, e di cui il clown Pennywise non è che la più estrema delle manifestazioni. Ecco, questo senso di malessere e di claustrofobia nel film trapela solo per brevi tratti: quando, cioè, Muschietti rinuncia a scatenare la furia sadica dello spauracchio impersonato da Bill Skarsgård, preferendo invece giocare con le angosce e le paranoie dei suoi protagonisti (si veda la scena della visita di Ben Hanscom in biblioteca).
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Out of the blue and into the black
A nostro avviso, si tratta del maggiore limite di una trasposizione nel complesso assai lodevole: un'aderenza a codici horror abbastanza convenzionali, che probabilmente ne hanno favorito il successo di pubblico, ma che non ci permettono di pensare a questo It come a un film che possa riscrivere le regole del proprio genere. Sarà anche diventato l'horror con i più alti incassi di tutti i tempi (sebbene non il primo per numero di spettatori), ma l'It di Muschietti non è destinato alla statura iconica di titoli come Psycho, L'esorcista, Shining, Il silenzio degli innocenti o Il sesto senso; e in fondo, non ha neppure l'ambizione di voler raggiungere un tale traguardo. Ciò che di iconico si può riscontrare nel film, come la sequenza iniziale di Georgie e della sua barchetta, deriva direttamente dalla potenza immaginifica della prosa di King; Andrés Muschietti, dal canto suo, punta molto sulle sembianze malefiche del nuovo Pennywise, ma rinuncia appunto a costruire un'inquietudine davvero penetrante.
Ora, quali sono le prospettive in vista della realizzazione del sequel? L'augurio è che, forte del consenso guadagnato con il primo film e della certezza di un lauto ritorno economico, il team di It scelga di intraprendere strade più coraggiose e di accentuare la componente più morbosa e sinistra della storia, predominante anche nel libro in relazione alle vicende dei protagonisti da adulti. Un esempio emblematico, senza spoilerare nulla: il crescendo di tensione posto all'inizio del terzo capitolo (Sei telefonate), ventritré pagine via via più logoranti che porteranno a un'atroce rivelazione su uno dei personaggi. Ovvio che il cinema debba agire con tempi e strumenti differenti da quelli della letteratura, ma l'impianto narrativo ideato da Stephen King offre un potenziale pressoché immenso, con tantissimi spunti ancora da cogliere e da sfruttare. E se la prima parte del dittico, comprensibilmente e forse anche giustamente, celebra l'amicizia e la purezza dell'adolescenza come uniche armi per contrastare gli orrori del mondo, la seconda parte, ancora in gestazione, potrebbe fornirci quell'immersione nell'incubo che rappresenta l'"anima nera" dell'opera kinghiana. Del resto, vale la pena ricordare che nell'epigrafe del romanzo troviamo il verso più famoso del canzoniere di Neil Young: "Out of the blue and into the black". Fuori dal blu e dentro al nero.