"Chi gli ha dato la green card?", esclamava un anno fa Sean Penn, alla cerimonia degli Oscar, a proposito del suo amico Alejandro González Iñárritu, che nel 2003 lo aveva diretto in 21 grammi - Il peso dell'anima e che quella sera aveva trionfato agli Oscar con il suo Birdman, ricompensato con quattro statuette tra cui miglior film, regia e sceneggiatura. Il successo del messicano Iñárritu, adorato dall'Academy fin dai tempi di Amores perros (candidato nel 2000 come miglior film straniero), arrivava ad appena un anno di distanza da quello del suo connazionale Alfonso Cuarón, ricompensato con la statuetta come miglior regista grazie al blasonatissimo thriller spaziale Gravity.
Nato a Città del Messico, Cuarón è sempre stato uno dei beniamini di Hollywood: nel 1995 ha diretto la sua prima produzione in lingua inglese, La piccola principessa, mentre nel 2001 ha incantato la critica con Y tu mamá también, racconto di formazione a tinte erotiche che gli sarebbe valso la nomination all'Oscar per la miglior sceneggiatura (un riconoscimento tutt'altro che scontato per i film in lingua non inglese). In seguito sarebbero arrivati l'ingaggio per Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, gli apprezzamenti per il dramma sci-fi I figli degli uomini e quindi, nel 2013, gli incassi record e la valanga di Oscar per Gravity, sorprendente prova di virtuosisimo registico costruita attorno alla solitaria performance di Sandra Bullock, astronauta in lotta per la sopravvivenza.
Alejandro González Iñárritu: da Birdman a Revenant, il Re degli Oscar venuto dal Messico
Ed è un'altra lotta per la sopravvivenza, curiosamente, il nucleo narrativo della pellicola in pole position per la prossima edizione degli Academy Award. Già ricompensato con tre Golden Globe per miglior film, miglior regia e miglior attore a Leonardo DiCaprio, e forte di un totale di ben dodici nomination agli Oscar, da quasi un mese Revenant - Redivivo sta facendo furore nelle sale americane, dove ha già superato i centoventi milioni di dollari, e sta riportando incassi eccellenti anche nel resto del mondo, Italia inclusa. L'entusiasmo della critica non è del tutto unanime, questo è vero (tanto che l'impatto di Revenant sulla Awards Race era stato un po' sottovalutato), ma i membri dell'Academy, così come gli spettatori, sembrano essere rimasti incantati dalla prodigiosa messa in scena di Iñárritu, che dopo Birdman ci regala altri piani sequenza a dir poco strabilianti, e del suo direttore della fotografia, Emmanuel Lubezki (alias Chivo), anche lui messicano e in procinto di aggiudicarsi il suo terzo Oscar consecutivo, un record assoluto.
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Dalle collaborazioni con lo sceneggiatore Guillermo Arriaga per 21 grammi e Babel, arrivando poi a Biutiful (di nuovo in lingua spagnola) e alla surreale "sera della prima" di Birdman, Iñárritu si è conquistato un consenso via via più ampio, lavorando con alcuni fra gli attori più stimati di Hollywood e ricevendo un'impressionante quantità di riconoscimenti. Al momento, con Revenant che continua a macinare consensi e ad occupare il centro dell'attenzione mediatica, il regista messicano può essere considerato a pieno titolo l'alfiere di una generazione di cineasti che, dal Sud America, hanno saputo imporsi grazie al proprio talento e all'intensità di opere dal carattere spesso duro e spiazzante, guadagnandosi uno spazio maggiore di anno in anno sia nei cartelloni dei principali festival internazionali, sia - ed è ciò che sorprende maggiormente - nelle sale dei vari angoli del pianeta.
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Oggi, Alfonso Cuarón e Alejandro González Iñárritu sono fra i registi di punta dell'industria hollywoodiana, pur senza aver dimenticato le proprie radici geografiche e culturali. Insieme a loro va ricordato anche il connazionale Guillermo del Toro, altro "gigante" dell'industria, capace di alternare blockbuster come Blade 2, la saga di Hellboy o il poco fortunato Pacific Rim con un sofisticato fanta-horror a sfondo storico quale Il labirinto del fauno e le suggestioni gotiche della recente ghost story in costume Crimson Peak. E in questi giorni l'enorme successo di Revenant, che potrebbe portare Iñárritu addirittura al secondo Oscar consecutivo per la miglior regia, ci offre l'occasione per allargare lo sguardo anche ad altri esponenti di questa clamorosa rinascita del cinema sudamericano, estremamente florido e ricco d'interesse...
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Ti guardo: il trionfo a Venezia di un esordiente dal Venezuela
E mentre Revenant continua a riempire le sale e Leonardo DiCaprio già inizia a preparare il discorso di ringraziamento per l'ormai inevitabile Oscar in arrivo, questa settimana, sebbene con meno clamore, ha debuttato nei cinema italiani un altro film diretto da un regista sudamericano: il venezuelano Lorenzo Vigas, ex collaboratore di Guillermo Arriaga, qui alla sua prima prova dietro la macchina da presa. Un debutto da lode accademica, certificato dalla giuria della 72° Mostra di Venezia, presieduta fra l'altro da Cuarón, che ha ricompensato Vigas e il suo dramma Ti guardo con il Leone d'Oro come miglior film del Festival. Interpretato da uno dei volti simbolo del cinema dell'America Latina, il cileno Alfredo Castro, Ti guardo è ambientato nei sobborghi di Caracas, dove il maturo Armando, proprietario di un laboratorio di protesi dentali, ha l'abitudine di adescare ragazzi poco più che adolescenti, invitandoli a casa propria e pagandoli per spogliarsi davanti a lui, senza però neppure sfiorarli (il titolo originale, Desde allá, significa infatti "da lontano"). Questo rituale, consumato in un rapido onanismo, si interrompe però quando Armando si imbatte nel giovane Elder (Luis Silva), un teppistello di strada che, dopo averlo picchiato e derubato, accetta di rivederlo, dando inizio a un rapporto indefinibile, carico di sfumature e di ambiguità, ma anche di un sotterraneo sentimento di affetto.
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Opera a metà strada fra il mèlo omoerotico e il noir, caratterizzata da un rigore formale impeccabile e dall'asciuttezza di un meccanismo narrativo che si svela passo dopo passo, Ti guardo è una pellicola carica di sottintesi e di possibili interpretazioni, che non offre facili risposte e pone una sfida continua nei confronti dello spettatore. Un Leone d'Oro inaspettato ma assai meritato, per uno dei titoli più affascinanti di quest'anno. E sempre a Venezia, in un'edizione dominata dal Sud America, il Leone d'Argento (il secondo premio per importanza) è stato attribuito a El Clan, thriller a sfondo storico firmato da uno dei cineasti più rinomati dell'Argentina, Pablo Trapero. Basato sulla reale vicenda di una famiglia criminale, i Puccio, coinvolti in una serie di sequestri e di delitti nella Buenos Aires degli anni Ottanta, El Clan è un crime drama dalle influenze scorsesiane che ha ribadito la statura di Trapero, cineasta molto noto nel circuito festivaliero e nei paesi di lingua latina, ma ancora sconosciuto per il pubblico italiano (e purtroppo neppure il Leone d'Argento sembra aver suscitato l'interesse dei nostri distributori, almeno per ora).
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Dal Brasile alla Colombia, da Cannes a Berlino, sognando l'Oscar
Se il Festival di Venezia dello scorso anno batteva orgogliosamente bandiera sudamericana, a conferma dello stato di salute di cui gode una cinematografia per la quale la relativa essenzialità dei mezzi non è certo un limite imprescindibile, nel corso del 2015 anche tutti gli altri grandi festival mondiali hanno assistito al successo di pellicole appartenenti a questa "riscossa latina" ormai sempre più vasta, anche a livello geografico. Esattamente un anno fa, al Sundance Film Festival 2015, due dei film più applauditi del cartellone erano la commedia brasiliana È arrivata mia figlia e il dramma familiare cileno Nasty Baby, approdati entrambi, subito dopo, nella sezione Panorama del Festival di Berlino. Vincitore di una decina di premi, proposto come rappresentante del Brasile per gli Oscar di quest'anno e portato nelle sale italiane la scorsa primavera grazie a BIM Distribuzione, È arrivata mia figlia descrive con leggerezza ma profondità di sguardo i rapporti sociali e familiari nella moderna San Paolo, attraverso la reunion fra Val (Regina Casé), domestica in una casa borghese, e la figlia Jéssica (Camila Márdila), desiderosa di riabbracciare la madre.
È frutto del regista, sceneggiatore e attore cileno Sebastián Silva invece Nasty Baby, che a Berlino 2015 aveva vinto il Teddy Award come miglior film a tematica omosessuale, mentre in Italia è stato proiettato al Torino Film Festival. In Nasty Baby Silva si cala nel ruolo di Freddy, immigrato europeo che risiede a Brooklyn con il suo compagno Mo (Tunde Adebimpe) e desidera mettere al mondo un figlio, provando a ricorrere all'aiuto della loro amica Polly (Kristen Wiig); ma un drammatico imprevisto farà precipitare la situazione, mettendo in discussione i rapporti fra i personaggi. E oltre al Sundance e a Berlino non può mancare il Festival di Cannes, dove nell'edizione 2015, nella sezione Quinzaine des Réalisateurs, è stato presentato El abrazo de la serpiente, opera diretta dal giovane regista colombiano Ciro Guerra. La vera storia dello sciamano Karamakate, interpretato da due diversi attori in due fasi distinte della sua vita, ambientata nei suggestivi scenari dell'Amazzonia, ha incantato la critica sia in Europa che in America, tanto che pochi giorni fa El abrazo de la sierpente ha ricevuto la nomination all'Oscar come miglior film straniero, la prima candidatura di sempre nella storia del cinema colombiano.
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L'orrore e gli spettri del cinema cileno: Pablo Larraín
Il nostro itinerario nel cinema sudamericano, tuttavia, non poteva concludersi senza dedicare spazio anche a colui che, con probabilità, rappresenta oggi il massimo esempio di cineasta capace di raccontare sullo schermo l'America Latina e gli spettri del suo passato (ben più dei succitati Cuarón e Iñárritu, ormai inseriti nel sistema hollywoodiano): il regista cileno Pablo Larraín. Nato a Santiago, classe 1976, Larraín è stato consacrato negli ultimi anni come uno dei più acuti e originali cineasti della scena mondiale: un autore capace di adottare uno stile personalissimo, raggelato e raggelante, per rievocare gli spettri di un paese, il Cile, devastato dagli orrori del proprio passato e dall'infame marchio della dittatura di Augusto Pinochet. A partire da Tony Manero, l'allucinato viaggio nella follia e nella violenza di un individuo ossessionato dal luccicante immaginario de La febbre del sabato sera, ricompensato con il premio come miglior film al Festival di Torino 2008, Larraín si è costruito un consenso via via crescente, narrando prima il colpo di stato del 1973 contro il Presidente Salvador Allende e l'ascesa al potere di Pinochet in Post Mortem, in concorso al Festival di Venezia 2010, e poi il declino del regime, nel 1988, con il referendum per sancire libere elezioni in Cile, in No - I giorni dell'arcobaleno, presentato al Festival di Cannes 2012 e candidato all'Oscar come miglior film straniero.
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Due film speculari, Post Mortem e No: diversissimi l'uno dall'altro, ma capaci entrambi di adottare una prospettiva intima e 'privata' per far emergere l'anima di un paese in due momenti pivotali della sua storia recente, nonché per affrontare di petto le storture e le atrocità di un passato che non può essere archiviato con un semplice atto di rimozione. E in attesa dell'esordio in lingua inglese di Larraín, Jackie, un ritratto della First Lady americana Jacqueline Kennedy con Natalie Portman, Peter Sarsgaard e Greta Gerwig, prossimamente dovrebbe debuttare nelle sale italiane il penultimo lavoro del regista cileno, El Club. Vincitore dell'Orso d'Argento al Festival di Berlino 2015 e proiettato allo scorso Festival di Roma nell'ambito della retrospettiva su Larraín, El Club è un claustrofobico dramma consumato fra le pareti di una residenza in riva al mare, ritiro/prigione per quattro sacerdoti cattolici che la Chiesa ha allontanato dalle rispettive diocesi per celare abusi sessuali e atti di pedofilia. Un'opera di agghiacciante durezza, in cui i temi della colpa e dell'espiazione sono declinati secondo un ambiguo meccanismo di rapporti di forza, dal quale trapela anche la silenziosa ipocrisia dell'istituzione ecclesiastica: un altro grande film in grado di testimoniare il valore di uno dei registi di maggior talento dell'ultimo decennio.
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