Qui infine, sulle rive del mare, si scioglie la nostra compagnia. Non vi dirò 'Non piangete', perché non tutte le lacrime sono un male.
La sequenza d'apertura de Il Signore degli Anelli - Il ritorno del Re consiste in un lungo flashback: un episodio già noto agli appassionati dell'universo tolkeniano, ma la cui presenza come trait d'union fra il secondo e l'ultimo capitolo della trilogia assume un ruolo particolarmente significativo. Il flashback in questione inizia infatti con un sorridente primo piano di Sméagol, che ha il (vero) volto dell'attore Andy Serkis, in uno scenario apparentemente idilliaco: il placido corso di un fiume illuminato dal sole e circondato dalle fronde del bosco dei Campi Iridati. La cinepresa si sofferma però su un macabro dettaglio: un verme infilzato in un amo per essere usato come esca. Un piccolo atto di violenza a cui, da lì a un paio di minuti, farà seguito un gesto ben più drammatico: lo strangolamento dell'hobbit Déagol da parte di suo cugino Sméagol, già in preda all'ossessione di mettere le mani sul proprio 'tesoro'.
In una trilogia in cui traboccano gli scontri e i combattimenti, l'omicidio di Déagol si distingue però da ogni altra uccisione mostrata fino ad allora: per il crudo realismo della scena in questione, con la macchina da presa fissa sulle mani di Sméagol avvinghiate attorno al collo di Déagol, mentre il corpo dell'hobbit si dimena sull'erba; per l'assenza di qualunque enfasi epica, con il tono ossessivo della musica di Howard Shore che evoca quasi suggestioni da film horror; e per la sensazione di ineluttabile atrocità nell'assistere a quella che è, a tutti gli effetti, una "perdita dell'innocenza". Il "peccato originale" di Sméagol si concretizza nell'anello dorato che, da lì in poi, decreterà la sua condanna alla solitudine delle caverne e la sua repellente trasformazione in Gollum: probabilmente il personaggio più emblematico, e più intimamente tragico, dell'universo nato dalla fantasia di John Ronald Reuel Tolkien e presentato ai lettori per la prima volta nel 1937, anno di pubblicazione del romanzo Lo Hobbit.
L'ultimo atto di una tragedia del potere
Il 17 dicembre 2003 approda al cinema Il Signore degli Anelli - Il ritorno del Re, atto conclusivo del più imponente adattamento del capolavoro di Tolkien, firmato dal regista e sceneggiatore neozelandese Peter Jackson: un kolossal fantasy di duecento minuti di durata, diventati duecentocinquanta nella extended edition, che fa seguito al clamoroso successo dei due capitoli precedenti, La compagnia dell'Anello e Le due torri, distribuiti dalla New Line fra il 2001 e il 2002, e che sarà ricompensato con un totale da record di undici premi Oscar, incluso il trofeo come miglior film dell'anno. Accolto da un entusiasmo pressoché unanime, Il ritorno del Re segna dunque il degno compimento dell'epopea della compagnia e della lotta fra i popoli liberi della Terra-di-Mezzo e le armate dell'Oscuro Signore Sauron, approfondendo al contempo la riflessione sul potere alla radice dell'intero racconto e già sviluppata nelle pagine di Tolkien.
Si è parlato più volte, del resto, dell'influenza esercitata sullo scrittore inglese dal clima apocalittico legato alle due guerre mondiali (la vita nelle trincee, i traumi psicologici, i bombardamenti nazisti sulla Gran Bretagna) e alla minaccia dei regimi totalitari: una fase storica i cui echi si rintracciano inevitabilmente in questa saga ambientata in uno scenario ancestrale, ma i cui temi trascendono il genere di appartenenza o gli eventuali parallelismi con una determinata realtà storica. Non a caso ne Il Signore degli Anelli si rintracciano elementi della mitologia norrena così come del teatro di William Shakespeare, e Il ritorno del Re costituisce una magistrale tragedia sul potere in cui si consuma un duplice conflitto: la guerra per difendere il Reame di Gondor, con alcune sequenze belliche che, in quanto a spettacolarità, rivaleggiano con l'assedio al Fosso di Helm ne Le due torri; e la singolar tenzone che molti personaggi dovranno affrontare con il concetto stesso di potere, nelle sue molteplici declinazioni.
Il Signore degli Anelli: il capolavoro di Tolkien sull'etica e il potere
I personaggi di Tolkien, fra ambizione ed eroismo
Nella versione estesa del film di Peter Jackson, subito dopo il prologo sul passato di Sméagol, assistiamo a un altro, drammatico esempio della corruzione morale provocata da un'ambizione divorante: si tratta di Saruman, affidato alla presenza magnetica di Christopher Lee, che dalla torre di Orthanc assiste con rabbiosa arroganza alla propria disfatta. Esclusa purtroppo dall'edizione proiettata nelle sale, l'ultima apparizione di Saruman sancisce la fine dello stregone a causa della sua hybris, anticipando un episodio relegato invece alle ultime pagine del romanzo; la connessione fra Sauron e Saruman, e la sudditanza di quest'ultimo nei confronti dell'Oscuro Signore di Mordor, è simboleggiata dal palantír, altro oggetto 'proibito', la cui apparenza scintillante emana però un'attrazione inesorabile sull'hobbit Pipino. Quella notte stessa Pipino cede alla tentazione, ritrovandosi sospeso nella contemplazione dell'abisso; ma la sua natura umile, analoga a quella di Frodo, gli permetterà di salvarsi, sottraendosi in tempo all'occhio di Sauron.
Pipino, e come lui pure Frodo e Sam, possiedono una caratteristica distintiva degli autentici eroi dell'epopea di Tolkien: la forza di volontà necessaria a respingere le seduzioni del potere. È il motivo per cui Frodo è in grado di sostenere il peso dell'Anello, è ciò che rende Sam il suo ideale compagno di viaggio nelle lande desolate di Mordor, ma è un tratto che in qualche modo riguarda anche il personaggio da cui deriva il titolo dell'atto finale della trilogia: Aragorn, interpretato da Viggo Mortensen, è un principe ramingo che viaggia sotto mentite spoglie, un guerriero recalcitrante a rivendicare il proprio ruolo di sovrano di Gondor. Denethor, il reggente, è destinato a soccombere per la sua indole tirannica, come padre prima ancora che in qualità di governatore; solo allora Aragorn potrà porsi alla guida dell'esercito di Gondor, ottemperando al tòpos dell'agnizione e osando spingersi fin sulla soglia del Nero Cancello, per sfidare l'Oscuro Signore sul suo stesso territorio.
Il Signore degli Anelli: il viaggio della compagnia, da Tolkien ai film di Peter Jackson
La distruzione dell'Anello e la consapevolezza della fine
Ma oltre alla maestosità dell'epica, la trasposizione filmica de Il ritorno del Re riprende e sottolinea un altro aspetto centrale dell'opera di Tolkien: una sommessa disillusione rispetto alla capacità umana di resistere appieno al male. Perché sebbene Il Signore degli Anelli sia innegabilmente pervaso da un intenso umanesimo e da una profonda fiducia nell'eroismo della "gente comune", la climax de Il ritorno del Re ci riserva un momento di spiazzante disincanto: giunto sul cratere del Monte Fato, Frodo fallisce la propria impresa; l'Anello ha il sopravvento su di lui e l'hobbit, anziché distruggerlo, se lo infila al dito. Frodo, in sostanza, sarebbe avviato a seguire le orme di Gollum, se non fosse lo stesso Gollum a strappargli l'Anello tranciando il dito dell'hobbit, per poi precipitare nella lava del Monte Fato, segnando così la scomparsa di Sauron. In altre parole, il lieto fine della vicenda è forse meno scontato di quanto possa sembrare, e si realizza pure grazie a un piccolo ma essenziale quoziente di casualità.
E così nelle ultime scene, dopo la celebrazione del trionfo dei protagonisti (e l'incoronazione di Re Aragorn), si insinua pian piano un ineludibile senso di malinconia; la Terra-di-Mezzo è scampata al pericolo, ma nella felicità della vittoria si annida la coscienza che non tutto potrà tornare come prima: "Come fai ad andare avanti, quando nel tuo cuore cominci a capire che non si torna indietro?". Perché Il Signore degli Anelli è innanzitutto un grandioso romanzo di formazione, ma la sua conclusione ci ricorda che si tratta anche di un'elegia sull'innocenza perduta e sulla consapevolezza della fine. "Siamo partiti per salvare la Contea, Sam, ed è stata salvata... ma non per me", dichiara Frodo, accingendosi a salpare con Bilbo, Gandalf e Galadriel per il Regno di Valinor, equivalente di un aldilà della Terra-di-Mezzo: l'eroe della trilogia riconosce che è impossibile cancellare del tutto il peso dell'Anello, e che certe ferite non saranno mai rimarginate. Ma più di qualsiasi amarezza, è una serenità pacificata a trapelare dalle parole dell'hobbit e a illuminare il sorriso di Elijah Wood, suggellando un epilogo magnifico pervaso di struggente dolcezza.