Una delle soddisfazioni più grandi, per chi ama la settima arte, risiede in quelle improvvise ed inspiegabili folgorazioni che, di tanto in tanto, catturano la nostra attenzione, lasciandoci intrigati o addirittura stupefatti. Avviene quando si incontra per la prima volta un regista, o meglio un "autore" (termine assai più impegnativo), che per un motivo o per un altro riesce a conquistarsi un posto nel nostro immaginario di spettatori, regalandoci un'esperienza che, senza dover rientrare necessariamente nell'abusata categoria del "capolavoro", appare connotata da un carattere di unicità tale da imprimersi nella nostra memoria.
È quanto accaduto diversi anni fa a quegli happy few (e il sottoscritto è fra questi) che, spinti dalla curiosità, andarono a recuperarsi J'ai tué ma mère, lungometraggio d'esordio scritto, diretto ed interpretato da un ragazzo canadese non ancora ventenne. Quel ragazzo si chiama Xavier Dolan, è nato a Montréal nel 1989 e oggi, a cinque anni dal suo debutto dietro la macchina da presa, è considerato una sorta di "nuovo idolo" dai cinefili di mezzo mondo. Il suo ultimo film, Mommy, proiettato in concorso alla 67a edizione del Festival di Cannes, è stato accolto con fragorosi applausi, si è aggiudicato il Premio della Giuria (in ex aequo con un certo Jean-Luc Godard), ha registrato un milione di spettatori nelle sale francesi ed è stato selezionato come rappresentante del Canada nella corsa all'Oscar per il miglior film straniero, con ottime possibilità di ritrovarsi nella prestigiosa cinquina.
Dal 4 dicembre Mommy sarà distribuito in Italia grazie a Good Films, offrendo anche al pubblico di casa nostra l'opportunità di appurare il talento di un regista che, a dispetto della sua giovane età, ha già imposto una cifra stilistica peculiare ed immediatamente riconoscibile. Una cifra ancor più evidente in questo quinto lungometraggio, che descrive il rapporto tormentato fra l'adolescente Steve e sua madre Diane, rapporto all'interno del quale troverà spazio pure la loro introversa vicina di casa Kyla. Opera percorsa da una straordinaria tensione emotiva per tutti i suoi 139 minuti di durata, Mommy costituisce una summa dell'itinerario artistico di Xavier Dolan; pertanto, l'uscita del film è l'occasione più adatta per fare un passo indietro e andare a riscoprire la figura e la produzione di questo enfant prodige che, a venticinque anni, è già sulla buona strada per diventare uno dei nostri registi preferiti...
Gli esordi: primi vagiti di un "matricida"
Avviato fin da bambino ad una carriera nello spettacolo (a cinque anni la sua prima apparizione in un film TV), anche in virtù di un padre - Manuel Tadros - attore e cantante, da adolescente Xavier si specializza nella professione di doppiatore in lingua francese: nel corso degli anni presterà la sua voce a Rupert Grint nella saga di Harry Potter e a Taylor Lautner in quella di Twilight, per poi doppiare anche Josh Hutcherson ne I ragazzi stanno bene e in Hunger Games e Aaron Taylor-Johnson in Kick-Ass. Xavier è appena diciannovenne quando, nel 2008, si dedica alla realizzazione del suo primo lungometraggio, di cui è interprete oltre che produttore, sceneggiatore e regista: J'ai tué ma mère ("Ho ucciso mia madre"), basato su una sua short story di ispirazione autobiografica dal titolo Le matricide. A sorprendere, in questa opera d'esordio, non è solo la maturità espressiva di un cineasta con una concezione ben definita della messa in scena, con una 'nervosa' camera a mano all'inseguimento dei protagonisti alternata a sequenze in camera fissa totalmente focalizzate sui volti degli attori. A stupire ancora di più, se possibile, sono il carattere personale ed il pathos vibrante che Dolan infonde alla storia: la cronaca della relazione dolorosa e distruttiva fra Chantal Lemming, madre single residente nella banlieu di Montréal, e Hubert Minel, diciassettenne problematico che non nasconde l'insofferenza verso Chantal.
Nelle interazioni tra madre e figlio, Dolan catalizza una serie di emozioni spinte verso estremi parossistici e affiancate a diversi elementi spiccatamente autobiografici: l'esperienza di crescere con genitori separati, l'omosessualità, il desiderio di evasione e l'inclinazione per l'arte. Se ne I quattrocento colpi di François Truffaut il piccolo Antoine Doinel si rifugiava nel cinema e nelle pagine di Balzac, in J'ai tué ma mère la valvola di sfogo alla nevrosi di Hubert è costituita dall'arte: il ragazzo trova infatti conforto nell'amicizia con la sua insegnante di educazione artistica, Julie Cloutier, e consuma la passione erotica con il coetaneo Antonin Rimbaud in una sequenza contrassegnata da una selvaggia esplosione di colori, come nei dipinti di Jackson Pollock. Premiato nella sezione Quinzaine des Réalisateurs al Festival di Cannes 2009, J'ai tué ma mère riscuote una notevole attenzione a vari festival internazionali e inizia a far circolare il nome di Xavier Dolan, al punto che la pellicola riceve la candidatura al premio César e viene selezionata (senza successo) come rappresentante del Canada per l'Oscar al miglior film straniero.
Enfant terrible, sulle orme di Truffaut
A consolidare la reputazione di enfant prodige (ed enfant terrible) di questo prolifico ventenne è la sua seconda prova da regista, Les amours imaginaires, che nel 2010 lo riporta al Festival di Cannes, questa volta nella sezione Un Certain Regard, e gli permette di bissare la nomination ai César. Se per J'ai tué ma mère il termine di confronto fin troppo ovvio risiedeva ne I quattrocento colpi, Les amours imaginaires sembra proseguire lungo l'itinerario truffautiano strizzando l'occhio a Jules e Jim: il film, infatti, racconta il triangolo amoroso - in realtà decisamente 'casto', e sublimato appunto sul piano dell'immaginazione - fra il ventenne gay Francis (lo stesso Dolan), il suo (impossibile?) oggetto del desiderio, il biondissimo ed efebico Nicolas, e Marie, amica del cuore di Francis, innamorata a sua volta di Nicolas. In questa amara riflessione sulla natura ingannevole dell'amore, fonte ineludibile di struggimento, Dolan accentua ancora di più i toni estetizzanti di un'elaborazione stilistica che prende spunto, in maniera più o meno esplicita, dai massimi alfieri del melodramma cinematografico contemporaneo, ovvero Wong Kar-Wai e Pedro Almodóvar: in Les amours imaginaires assistiamo difatti ad un tripudio di ralenti, di ricercati cromatismi e di emblematici inserti musicali (da Bach e Wagner alla malinconica Bang Bang nella versione di Dalida), nel segno di una cura formale che concederà facile gioco ai detrattori di Dolan (sul giovane regista iniziano infatti a piovere le prime accuse di fare un cinema narcisistico e di maniera).
Se determinate critiche possono trovare qualche fondamento, è pur vero che Les amours imaginaires è il frutto della passione ardente e genuina di un cineasta di vent'anni verso la settima arte e le sue illimitate potenzialità. Come disse François Truffaut ai tempi della Nouvelle Vague: "I primi film sono più impetuosi, un po' sperimentali e contengono spesso passaggi da virtuoso, perché c'è una specie di gioco amoroso con la macchina da presa". E sono proprio il suddetto impeto, la partecipazione viscerale per i suoi protagonisti e la sfrenata radicalizzazione delle loro emozioni, declinati secondo una sensibilità schiettamente (e squisitamente) queer, a rendere il cinema di Xavier Dolan tanto personale, ma al contempo quasi universale nella sua pretesa di abbracciare il mondo intero, ridefinendone ritmi e movimenti e disegnando nuove geometrie spaziali e temporali, secondo un approccio totalizzante in grado di rasentare il capolavoro proprio laddove Dolan ha saputo alzare le proprie ambizioni: ovvero in Mommy e, prima ancora, in Laurence Anyways, film monumentale negli intenti come nella durata (168 minuti), che nel 2012 consacra definitivamente il regista del Quebec con la sua trionfale accoglienza al Festival di Cannes, dove vince la Queer Palm per il miglior titolo a tematica omosessuale, con il premio come miglior film canadese al Festival di Toronto e con la sua terza candidatura al César.
"C'est une révolution!"
Per la prima volta solo nelle vesti di regista, Dolan si sottrae all'autobiografismo delle sue pellicole precedenti, incentrate sul passaggio dall'adolescenza all'età adulta, sui conflitti familiari e sull'omosessualità, ed alza il tiro, firmando un fiammeggiante melodramma che si sviluppa nell'arco di un intero decennio (dal 1989, anno di nascita di Xavier, alla fine del millennio, ideale chiusura di un'epoca). Laurence Anyways è infatti il racconto di formazione del personaggio del titolo, Laurence Alia, interpretato con ammirevole mimetismo dall'attore Melvil Poupaud (protagonista di film quali Racconto d'estate di Eric Rohmer e Il tempo che resta di François Ozon): un insegnante di letteratura in un liceo di Montréal che, poco dopo il suo trentacinquesimo compleanno, rivela alla fidanzata, Frédérique Belair, di aver preso coscienza che il proprio vero io corrisponde a quello di una donna. Allo shock iniziale da parte di Frédérique fa seguito la non facile accettazione del nuovo genere sessuale di Laurence, che inizia a indossare abiti femminili, a truccarsi e a manifestare con sempre maggior sicurezza la sua reale identità. "C'est una révolte?", gli/le domanda sbigottito uno dei suoi colleghi; "Non sir: c'est une révolution!".
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E in Laurence Anyways, Dolan non si limita ad aderire allo sguardo della sua Laurence, effettuando in molteplici casi riprese in soggettiva, ma trasforma l'intero microcosmo filmico secondo l'ottica, il flusso di pensieri e gli stati d'animo della sua protagonista. Il calvario di Laurence, che è anche un sofferto ma necessario percorso di definizione della propria natura, è narrato pertanto distaccandosi dalle restrizioni del realismo attraverso una regia che, al contrario, fa assumere al mondo i contorni dettati dall'esasperata emotività di Laurence e di Frédérique, alla quale presta il volto la bravissima Suzanne Clément (premiata come miglior attrice nella sezione Un Certain Regard). E così il film procede fra distorsioni, ralenti, ellissi, sequenze surreali (la pioggia di abiti variopinti attorno a Laurence e Frédérique su uno scenario innevato) e soprattutto la musica. Componente fondamentale del cinema di Dolan, la soundtrack è il mezzo prediletto per veicolare le passioni, la tristezza e la vasta gamma di sensazioni dei personaggi, e in Laurence Anyways, come poi in Mommy, diventa un compendio imprescindibile alla narrazione: da storiche hit degli anni Ottanta, tra cui Fade to Grey dei Visage, Bette Davis Eyes di Kim Carnes ed Enjoy the Silence dei Depeche Mode, fino alla romantica ballata di Céline Dion Pour que tu m'aimes encore.
Sui sentieri del thriller
Il quarto lungometraggio di Xavier, Tom à la ferme, si distingue dal resto della sua produzione perché si tratta del primo ed unico caso di trasposizione da una fonte letteraria di un altro autore, ovvero l'omonima pièce teatrale di Michel Marc Bouchard, che firma con Dolan la sceneggiatura. Promosso nella "serie A" dei festival, con l'inserimento in competizione alla settantesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia (dove ottiene il premio dei critici FIPRESCI), Tom à la ferme vede Xavier di nuovo protagonista nel ruolo di Tom, ventenne in lutto per la morte del compagno Guillaume, che in occasione delle esequie del fidanzato si materializza nella sperduta fattoria in cui abitano la madre di Guillaume, Agathe, ignara dell'omosessualità del ragazzo, e il figlio maggiore Francis, uomo brutale che trascinerà Tom in un pericoloso gioco fra il gatto e il topo, in cui gli ingredienti della minaccia (la furiosa aggressione in un campo di grano) sembrano amalgamarsi con quelli di un'implicita seduzione. Opera fondata sulle contraddizioni, sulla menzogna e sulle ambiguità, Tom à la ferme è un oggetto intrigante quanto indefinibile, in cui ai connotati di un torbido melò, con l'incipit sulle note di The Windmills of Your Mind cantata a cappella da Kahleen Fortin, si aggiungono tenebrose sfumature da vero e proprio thriller psicologico, accentuate dalla colonna sonora quasi hitchcockiana di Gabriel Yared.
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"You're my wonderwall"
Con Mommy, invece, Dolan torna ai temi e alla struttura del suo film d'esordio, J'ai tué ma mère, recuperando anche le medesime interpreti: una magnifica Anne Dorval nella parte di Diane Després, altra volitiva madre single con difficoltà a comunicare con suo figlio, e Suzanne Clément nel ruolo della timida vicina Kyla, surrogato dell'affetto materno ricercato e preteso con un'urgenza addirittura disperata da Steve (Antoine Olivier Pilon), adolescente affetto da un deficit di attenzione e da gravi disturbi psichici che sfociano in improvvise ed incontrollabili esplosioni di violenza. E come da regola, nella poetica di Dolan, i sentimenti non hanno mai un carattere moderato: sono sentimenti 'totali' che soverchiano i personaggi, ne obnubilano la lucidità, esacerbano le loro inquietudini fino a condurli negli abissi di una follia che rappresenta in fondo l'altra faccia dell'amore, la sua inesorabile complementarità. È forse questo il segreto della formidabile capacità di coinvolgimento del cinema di Dolan: la sua travolgente empatia, che richiede allo spettatore un'immedesimazione incondizionata verso i suoi protagonisti, senza schermarsi dietro la freddezza o il cinismo. Una visceralità che in Mommy raggiunge il proprio apice, in una rutilante fusione tra irrefrenabili entusiasmi e straziante solitudine, restituita ancora una volta pure attraverso la variegata soundtrack.
In una sequenza già di culto, al ritmo di un classico generazionale quale Wonderwall degli Oasis, Dolan arriva al punto di 'frantumare' letteralmente i limiti dello spazio filmico, allargando lo schermo rispetto a quel singolare formato 1:1 che riflette il senso di costrizione e di soffocamento provato da Steve. Ma la musica prorompe fragorosa anche in altre scene chiave di Mommy: è ancora la voce potente di Céline Dion ("Un tesoro nazionale!", come la definisce Steve), con la bellissima On ne change pas suonata a tutto volume dallo stereo nella cucina, ad unire Diane, Steve e Kyla in un euforico canto liberatorio, mentre la funerea Born to Die di Lana Del Rey accompagna il ralenti su cui si chiude la pellicola. E non è un caso se la sequenza più emozionante di Mommy, e forse dell'intera filmografia di Dolan, è la performance del giovane Steve, in uno squallido karaoke di periferia, sulle note inarrivabili di Vivo per lei di Andrea Bocelli, cantata come estrema dichiarazione d'amore all'indirizzo della madre: la voce fragile e sincera del ragazzo, che si incrina e si spezza contro l'apparente indifferenza della donna, costituisce il massimo esempio della grandezza di un film come Mommy, nonché una delle scene più intense, struggenti ed autenticamente dolorose che avrete la fortuna di vedere al cinema quest'anno.
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