Se ci sia qualcosa che possa incontrovertibilmente indicare cosa renda un cult tale non è dato saperlo con estrema certezza. Quello che è certo è che ci sono dei prodotti culturali che si distinguono dagli altri per qualcosa (o più di qualcosa) in particolare ed entrano così nell'immaginario popolare, vincendo la prova del tempo. A volte questo accade anche di fronte a una iniziale freddezza, per non dire sottovalutazione o respingimento. Una cosa del genere è accaduta a Il grande Lebowski, che un cult lo è di sicuro.
Non solo il film venne accolto dalla critica con un certo sbigottimento, causato anche dal fatto di essere la pellicola successiva a Fargo, che valse gli Oscar ai fratelli Joel e Ethan Coen, ma fu anche un grandissimo flop dal punto di vista del botteghino. Eppure bastarono giusto un paio d'anni perché divenisse oggetto di una rivalutazione incredibile, in primis tra il pubblico, soprattutto grazie alla distribuzione tra i famosi "film della mezzanotte". Il resto avvenne quasi naturalmente, dalla nascita di ben due festival ispirati al film a quella di una filosofia di vita chiamata Dudeismo (il "prenderla come viene"), proveniente da The Dude, il Drugo, protagonista della pellicola.
In questa montagna russa favolosa quello che si può invece affermare senza timore di smentita è la capacità del film dei Coen di regalare delle immagini iconiche ormai divenute immortali nella storia del cinema. Dalle scene con sottofondo i Creedence Clearwater Revival ai videoclip onirici che citano i Pink Floyd, passando per il Jesus di John Turturro, i Kraftwerk nichilisti, il dito mozzato e "la valle di lacrime" di walteriana memoria. Oltre questo Il grande Lebowski è anche uno straordinario esempio di scrittura filmica. La sceneggiatura è infatti incredibilmente complessa, stratificata, colta e citazionista, in grado di mischiare Storia Americana, controcultura degli anni '70 e narrativa gialla giocando con noir, grottesco e western.
Un film immortale che torna in sala il 6 novembre in versione restaurata 4k per il 25esimo anniversari con la Cineteca di Bologna nell'ambito de Il Cinema Ritrovato.
Le genesi di Drugo e di Walter
Il grande Lebowski di Joel Coen e Ethan Coen non nasce nel 1998, ma ben quattordici anni prima, quando i fratellini di St. Louis Park erano impegnati a trovare un distributore per il loro primo film, Blood Simple - Sangue facile. In quell'occasione fecero la conoscenza di alcuni personaggi piuttosto particolari che ispirarono la concezione del protagonista della pellicola.
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Il primo era Jeff Dowd, un produttore cinematografico e un attivista politico piuttosto fumantino. Membro dei Seattle Seven, ovvero una delle personalità più importanti del movimento radicale pacifista americano, e anche tra coloro che scontarono un periodo di detenzione a causa della partecipazione alle violente manifestazioni organizzate contro la guerra in Vietnam. L'uomo produsse il film dei Coen e fu tra le principali ispirazioni per il personaggio di Drugo, interpretato nel film da Jeff Bridges, a partire dal soprannome stesso fino all'abitudine di sorseggiare l'iconico White Russian a ogni occasione. C'è anche una scena nel film candidato all'Orso d'oro al Festival di Berlino nella quale viene lanciata allo spettatore la suggestione che il protagonista potrebbe essere stato impegnato politicamente a sua volta, quando viene citata la sua partecipazione alla Dichiarazione di Port Huron.
Il secondo nome è quello di Pete Exline, che i Coen conobbero tramite Barry Sonnenfeld, il direttore della fotografia dei primi tre film degli autori e che raggiunse il successo con Man in Black. Dai suoi racconti fu estrapolato l'elemento del tappeto, il macguffin da cui parte tutto l'intreccio narrativo, e la sua vicinanza all'attore e scrittore Lewis Abernathy aiutò l'ideazione di Walter Sobchak, il personaggio interpretato da John Goodman, come lui veterano del Vietnam. La sequenza de Il grande Lebowski in cui Drugo trova i compiti di un alunno di terza media sotto il sedile del passeggero della sua auto sequestrata dal dipartimento di polizia di Los Angeles pare sia interamente tratta dalla vita di Exline.
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Ultimo incontro, ma non ultimo per importanza, fu quello tra i Coen e John Milius durante le riprese di Barton Fink - È successo a Hollywood. Da lui i fratelli presero la passione per le armi per donarla a Walter. Il regista, tra l'altro, presentò loro Jim Ganzer, un altro modello da cui nacque il protagonista del film.
Tra Chandler e Altman
In origine Il grande Lebowski era pensato per essere un buddy movie incentrato soprattutto sul rapporto tra il Drugo e Walter. Di fatto è ancora così, intendiamoci, dal momento che la maggior parte delle scene chiave della pellicola riguardanti lo scioglimento dell'intreccio vedono al centro entrambi, ma man mano si decise di spostare il focus maggiormente sul personaggio interpretato da Jeff Bridges, pur conservando l'elemento del doppio, che però venne utilizzato per l'opposizione tra i due Lebowski.
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Un altro riferimento fondamentale per il film dei Coen fu Il grande sonno di Raymond Chandler, uno dei romanzi gialli più importanti della storia della letteratura americana e già portato sullo schermo con due adattamenti, il primo nel 1946 diretto da Howard Hawks e con protagonista Humphey Bogart e il secondo, di minore importanza, del 1978 diretto da Michael Winner e con protagonista Robert Mitchum. Però, anche alla luce di queste trasposizioni, ai fratelli autori non interessava più di tanto un'altra sceneggiatura interamente presa dal romanzo e dunque allargarono il raggio d'azione all'intera narrativa di Chandler. Non a caso quando citarono un esempio cinematografico per il loro film fecero il nome de Il lungo addio di Robert Altman, la pellicola proveniente dal mondo dello scrittore meno fedele tra tutte. Così poco fedele da cambiare il finale del libro a cui si ispirava e da non fare mistero di avere inserito nel soggetto una grande parte degli appunti proveniente dal libro Raymond Chandler Speaking.
Oltre a sottolineare l'interesse dei Coen verso una citazione soprattutto tematica dell'opera dello scrittore americano, questa scelta indica anche la volontà di continuare un percorso in grado di occuparsi dello status dell'America partendo da un punto di vista controculturale e anche "contro" il cinema commerciale hollywoodiano figlio delle grandi produzioni protagoniste della Golden Age negli anni '50. Robert Altman era uno dei nomi più importanti del filone parallelo quello della industry e Il grande Lebowski, con la sua capacità di raccontare la realtà americana di inizio anni '90 figlia di miriadi di contraddizioni in un viaggio crime in cui lo sbandato smaschera il suo contraltare borghese e vincente, si inserisce nel filone con pieno merito. L'altro cineasta contemporaneo che si è avvicinato a questi lidi creativi è Paul Thomas Anderson, pupillo, guarda un po', proprio di Altman. La pellicola dei Coen è dunque anche un manifesto del loro modo di scrivere e pensare il cinema.
Un manifesto della scrittura coeniana
Il grande Lebowski è a metà l'hard boiled e il neo noir in cui un outsider inconsapevole di quello che gli sta accadendo si ritrova al centro di una serie di eventi che permettono allo spettatore di accedere ad uno spaccato degli Stati Uniti di quegli anni. Un racconto che parte del basso e pesca a piene mani da ciò che sta ai margini della società perbene, come il cinema pornografico, i reduci di guerra traumatizzati per sempre e abbandonati a loro stessi, pederasta di origini latine o hippies nullafacenti a cui interessa principalmente rimanere sballati il giusto per tutta la loro vita diurna.
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Un viaggio lisergico che si apre e si chiude con due meravigliosi incontri di generi, folgoranti per la semplicità e l'intelligenza dei fratelli Coen, in cui il voice over tipico della narrazione chandleriana incontra l'immaginario western, che è l'altro universo classico da cui la pellicola del 1998 deriva direttamente. Al posto del duello tra pistoleri alla Mezzogiorno di fuoco c'è il torneo di bowling, che restituisce anche quell'idea di vintage in modo da assottigliare la distanza con il passato ed aiutare il racconto ad acquisire un respiro ancora più universale. Il bancone, ma anche le sedie vicino alle piste, diventano l'equivalente del saloon, dove è possibile catturare i discorsi dei giocatori (pistoleri), che nel film dei cineasti di St. Louis Park trattano di politica, filosofia, storia e religione.
Se ci sia qualcosa che possa incontrovertibilmente indicare cosa renda un cult tale non è dato saperlo con estrema certezza, ciò che è sicuro è che Il grande Lebowski è una pellicola importantissima per capire la poetica del fratelli Coen, comprendere l'evoluzione di un certa tipologia di cinema nordamericano ed è anche una pellicola che è stata in grado di ritagliarsi uno spazio nell'immaginario popolare così importante che 25 anni dopo l'uscita è ancora vivo e vegeto, anche grazie al potere del film di farsi riscoprire ad ogni nuova visione.