Il Divo: Andreotti, Sorrentino e la necessità del male

Con Il Divo, ritratto di Giulio Andreotti alla vigilia di Tangentopoli e del crollo della Prima Repubblica, Paolo Sorrentino ci offriva un'allucinata incursione nelle stanze del potere.

Il Divo: Andreotti, Sorrentino e la necessità del male

Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo! E noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta!

È una figura vampiresca, Giulio Andreotti. Una creatura della notte, gravata dal peso di una sommessa sofferenza che sembra perseguitarla incessantemente, alla stregua di una maledizione. Non a caso il primo gesto compiuto da Andreotti ne Il Divo è quello di trangugiare due bicchieri d'acqua con una doppia aspirina, per poi strisciare silenzioso lungo i corridoi del proprio rifugio domestico, tornando a farsi inghiottire dall'ombra (la macchina da presa si sofferma più volte sulla sua mano che spegne tutti gli interruttori). Andreotti si crogiola nell'oscurità: nella scena successiva, nel buio della sua camera da letto, il Capo del Governo italiano è una sagoma ingobbita riflessa nello specchio, a un angolo dell'inquadratura. Poco dopo lo osserviamo camminare lentamente lungo Via del Corso, in una Roma ancora ammantata dalla quiete prima dell'alba: un contorno quasi indistinguibile da quello degli agenti della sua scorta, che avanzano intorno a lui con la medesima, innaturale lentezza.

Il divo Giulio di Paolo Sorrentino e Toni Servillo

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Il Divo: un'immagine di Paolo Sorrentino

È il paradosso evidenziato fin dalle prime immagini del film di Paolo Sorrentino: un potere immenso, tentacolare, incarnato in un corpo piccolo, curvo e fragile. Allo stesso modo, dietro una maschera di impassibilità, trapelano i guizzi di un'intelligenza lucida e tagliente. "In chiesa, De Gasperi parlava con Dio; Andreotti con il prete"; "I preti votano, Dio no", è la replica sorniona del Presidente del Consiglio, prima di rinchiudersi nel segreto della confessione. Da lì in poi, Il Divo oscillerà fra questi due poli: la polisemia delle parole e la barriera dell'indicibile. In entrambi i casi, un'ambiguità che contraddistingue in maniera endemica il personaggio al cuore del racconto, quasi un modus vivendi che il divo Giulio rivendica con sprezzante fierezza quando, per schermarsi dalle allusioni del giornalista Eugenio Scalfari, chiosa sarcastico: "La situazione era un po' più complessa. Ma questo non vale solo per la sua storia... vale anche per la mia".

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Il Divo: un'immagine del film

Quarto lungometraggio di Paolo Sorrentino, Il Divo debutta nelle sale italiane il 28 maggio 2008, cinque giorni dopo la sua presentazione al Festival di Cannes, dove viene insignito del Premio della Giuria. Si tratta del terzo capitolo del sodalizio fra il regista napoletano e Toni Servillo, già protagonista nel 2001 dell'opera d'esordio di Sorrentino, L'uomo in più, e nel 2004 del suo acclamatissimo Le conseguenze dell'amore. Accompagnato dall'inevitabile curiosità legata al più importante e controverso uomo politico degli ultimi trent'anni della Prima Repubblica, Il Divo sarà il film della decisiva consacrazione di Sorrentino, annoverato tra i capofila di quella che la stampa si affretta a definire come una folgorante rinascita del cinema d'autore italiano. È il periodo in cui, a spartirsi con Il Divo l'entusiasmo collettivo di critici e spettatori, è Gomorra di Matteo Garrone, anch'esso premiato a Cannes e accolto con risonanza perfino maggiore fra le platee internazionali.

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Il Divo
Il Divo: un primo piano di Toni Servillo

Ricompensato in patria con sette David di Donatello, incluso il trofeo per Toni Servillo, Il Divo sembra riallacciarsi a quel filone di cinema 'politico' praticato da autori di almeno una generazione precedente rispetto a Paolo Sorrentino, allora appena trentaseienne. Eppure, la sua pellicola è tutto fuorché un richiamo alla tradizione: non aderisce alle convenzioni della biografia classica, limitandosi a ripercorrere l'ultimo atto della carriera di Giulio Andreotti, corrispondente alla prima metà degli anni Novanta, e rifiuta in toto gli stilemi del dramma giudiziario e del film-inchiesta. Un ideale predecessore, semmai, si potrebbe rintracciare in Todo modo, allucinato adattamento realizzato trent'anni prima da Elio Petri dell'omonimo romanzo di Leonardo Sciascia. Pure in quel caso, l'occhio della cinepresa era puntato sulla classe dirigente della Democrazia Cristiana e su uno dei suoi volti-simbolo, l'Aldo Moro adombrato da Gian Maria Volonté nel Presidente M.

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Il Divo: un'immagine del film

A tre decenni di distanza, Aldo Moro viene rievocato pure ne Il Divo, ma come una presenza/assenza con cui l'Andreotti di Toni Servillo è costretto suo malgrado a fare i conti. Del film di Petri, del resto, Sorrentino recupera l'inesorabile cupezza e il registro ferocemente grottesco: si veda in particolare la descrizione della corrente andreottiana della DC, una galleria di meschinità assortite e di miserie umane rivestite di un servilismo mellifluo. Ma un altro tratto in comune fra Todo modo e Il Divo è la dimensione quasi onirica, in grado di trasferire la realtà del film dal piano della Storia (che ai tempi di Petri, nel bel mezzo del compromesso storico, era autentica attualità) a quello ben più vasto e universale di una sempiterna "commedia del potere", le cui regole rimangono invariabilmente valide. Ed è su quest'ultimo piano che si riaffaccia lo spettro di Moro, per tormentare un Macbeth dei nostri tempi risvegliandone i demoni della coscienza.

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Il Divo: un profilo di Toni Servillo

Immerso nella penombra, seduto su uno scranno al centro di un'inquadratura rigorosamente simmetrica (e le simmetrie, con quella geometrica perfezione estranea alla realtà, qui sono un marchio distintivo della regia di Sorrentino e della fotografia di Luca Bigazzi), Giulio Andreotti abbandona la sua glaciale compostezza per lanciarsi in un fluviale monologo-confessione sulle "malefatte che il potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del paese". Le ragioni della Realpolitik, i compromessi della morale in nome di un presunto bene superiore, le responsabilità del potere che trascendono le leggi delle persone comuni: sono i principi a cui si aggrappa il leader della DC mentre l'Italia viene dilaniata dalle stragi di Mafia e il sistema della Prima Repubblica frana incontrollabilmente sull'onda degli scandali di Tangentopoli, a partire da quel fatidico 1992 che avrebbe mutato per sempre il volto e l'anima del nostro paese.

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Il Divo: Anna Bonaiuto e Toni Servillo

"La mostruosa, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene". Giulio Andreotti, in procinto di essere processato per associazione mafiosa, stringe teneramente la mano della moglie Livia (Anna Bonaiuto) e riceve il suo sguardo amorevole, mentre in TV Renato Zero canta I migliori anni della nostra vita. Sorrentino non fa di lui un Riccardo III, a prescindere dalla sua ambizione (il film passa anche per la mancata elezione di Andreotti al Quirinale); piuttosto lo dipinge come un servitore dello Stato logorato dal potere, rovesciandone così il celebre motto. Se Giuda ha dovuto tradire Gesù per permettere che lui fosse crocifisso e potesse risorgere, il cattolicissimo Andreotti si considera a sua volta uno strumento della necessità del male: per conto di Dio e per conto dello Stato. "Abbiamo un mandato noi, un mandato divino! Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene? Questo Dio lo sa e lo so anch'io".

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