Recensione The Aviator (2004)

Seppur con un'opera più distaccata e imponente, Martin Scorsese resta fedele alla sua poetica e ancora una volta racconta l'America delle contraddizioni e delle false speranze.

Il cielo sopra l'America

Pochi giorni fa il nuovo film di Martin Scorsese, The Aviator, dopo gli importanti riconoscimenti ottenuti ai Golden Globes, con ben undici nomination è diventato il front-runner per la più prestigiosa premiazione del cinema internazionale, gli Academy Awards, o più semplicemente gli Oscar.

Un risultato rilevante, ma non sorprendente, considerando il trend della stagione: il film ha fatto incetta di candidature da parte di tutte le Guild americane, tecniche e attoriali, e ha già conquistato il Producers' Guild - un risultato avvicinabile soltanto al plebiscito che ha accompagnato l'anno scorso Il signore degli anelli - Il ritorno del re alle sue undici statuette. Questo nonostante il fatto che la joint venture dietro a The Aviator non si direbbe troppo benvoluta dalla industry hollywoodiana: a cominciare dal regista, alla sua sesta candidatura della carriera, che più volte sembrava dovesse far sua più di una statuetta ma che puntualmente si è ritrovato a bocca asciutta (l'ultima volta solo due anni fa con Gangs of New York) per finire con il suo protagonista, quel Leonardo DiCaprio, lasciato a casa nell'anno del trionfo di Titanic e costretto a cedere il trono di King of the World.
A far ben sperare c'è questa volta una pellicola con tutte le carte in tavola per piacere all'Academy of Motion Picture Arts and Science: ovvero una biopic (genere tanto in voga quest'anno) imponente, tecnicamente spettacolare (dagli effetti speciali alla fotografia, passando per sonoro, montaggio, costumi, scenografia e ovviamente regia, non c'è elemento, non c'è dettaglio che non lasci di stucco), che ben fotografa sia i ricordi della Hollywood d'oro - per di più rendendo omaggio, grazie alla bravura e alla bellezza dell'eccezionale Cate Blanchett, alla regina indiscussa degli Oscar, Katharine Hepburn - che gli aspetti contraddittori dell'American Dream tanto caro al cinema statunitense.

The Aviator racconta il miliardario texano Howard Hughes, le sue passioni, (l'aviazione e l'ingegneria aeronautica, ma anche il cinema e le donne) ma non è una biografia completa e ortodossa, in quanto copre soltanto un periodo di quattro lustri, che va dalla fine degli anni '20 al secondo dopoguerra. Vent'anni in cui per Hughes si alternano conquiste e disfatte, amori e delusioni, trionfi e capitolazioni, passando per la storia dell'aviazione americana, dall'acquisizione della TWA al processo intentato contro il magnate dal senatore Brewster, legato agli interessi della rivale Pan Am.

Il film è stato, ed è, costantemente avvicinato al capolavoro di Orson Welles, Quarto potere, che racconta ascesa e caduta del carismatico e ambiguo Charles Foster Kane, dall'infanzia gonfia di speranze alla morte solitaria. Le analogie naturalmente non mancano; sembra anzi che Welles, oltre che al magnate dell'editoria William Randolph Hearst, si fosse ispirato proprio ad Howard Hughes per la caratterizzazione di Kane. Ma non è questo tipo di epos biografico che interessa a Scorsese e John Logan: loro si fermano alla più grande delle vittorie di Hughes, la sua rinascita dalle ceneri dei primi fallimenti, quella che è anche la sua ultima grande impresa, ma lo fanno mostrando però come la vittoria sia effimera e annunciando l'ineludibile minaccia della malattia che è il desolante futuro di Hughes. Un'epifania che sostituisce, senza perdere d'intensità, l'intera parabola di un'esistenza, per arrivare alla stessa verità: la tragica transitorietà del successo e della fama, parte integrante dell'American Dream.
Le sue prodezze, le sue vittorie sono note a pochi; nessuno parla del suo contributo fastoso al cinema di quegli anni, che pure fu innovativo e significativo: ce ne parla invece The Aviator, che tratteggia un personaggio controverso ma anche carismatico e accattivante, un sognatore dotato di una prodigiosa forza di volontà, un uomo curioso e irresistibile la cui immagine contrasta con quella che il mondo ha di Howard Hughes.

Eppure lo Hughes di Scorsese (e di DiCaprio, bravissimo nell'incarnare il vulcanico dongiovanni ma anche straordinario nel lasciare trapelare gradualmente, scena dopo scena, i segnali della patologia del miliardario) è tutt'altro che un eroe. Non si convinca, lo spettatore, spiazzato dalla megaproduzione e dal glamour della pellicola, dalle belle donne e dagli aerei roboanti, di trovarsi di fronte ad uno Scorsese minore, conciliante e forse anche superficiale: perché questo giovane e luminoso Hughes non è diverso dai suoi nemici, ed è per i propri interessi che combatte, senza farsi scrupolo di ricorrere alle bassezze commesse dai suoi avversari. Questo bellissimo e brillante playboy è minato da una malattia dal decorso inesorabile, che lo rende scostante e sgradevole, che ne farà un vecchio pazzo vittima di impietose ironie.

Come in Casinò, non bastano la bellezza, il lusso e il potere a nascondere una realtà che è corruzione, dolore, sopraffazione; perché questa è l'America che Scorsese ama e odia, Howard Hughes è l'America sporca, ferita e malata eppure grande, come quella che il regista ci aveva mostrato nella bellissima immagine di New York che concludeva il suo Gangs.
Questo film che sembra fatto per vincere l'Oscar è dunque profondamente scorsesiano; seppur con opere più distaccate e imponenti, il regista di Queens resta fedele alla sua poetica: da qualunque prospettiva la si guardi, l'America ha lo stesso cuore marcio. E da qualunque prospettiva la si guardi, vale la pena di raccontarla.

Movieplayer.it

4.0/5