Il Bif&st celebra Max von Sydow, il cavaliere che illuse la morte

Da Il Settimo Sigillo al grande cinema americano, l'attore svedese racconta una carriera lunga più di cinquant'anni

Centoquarantacinque film e ottantadue anni portati con la passione di un ventenne: questo è Max von Sydow, l'uomo che giocando a scacchi con la morte è entrato in un immaginario cinematografico collettivo. Eppure, con più di cinquant' anni di carriera alle spalle, l'attore svedese è riuscito ad essere l'icona del cinema sperimentale di Ingmar Bergman e molto altro. Dal successo de Il settimo Sigillo in poi, le produzioni internazionali lo hanno corteggiato e coinvolto in progetti dalle forme e contenuti diversi, stimolando la fantasia di un artista pronto a mettersi in gioco fino in fondo nel mestiere d'attore. Perché, come lui stesso ha affermato " è difficile spiegare la natura di questo lavoro, com'è impossibile insegnarlo. L'unica cosa che possiamo fare è sperimentare quanto più possibile, afferrare le opportunità che ci vengono offerte e creare personaggi sempre diversi." Un principio che Max von Sydow ha seguito nella scelta di film come Il posto delle fragole, La più grande storia mai raccontata, L'esorcista, Cuore di cane, I tre giorni del Condor, Minority Report e che oggi torna a confermare al Bif&st, durante la Masterclass a lui dedicata alla presenza di giornalisti, studenti e appassionati.

Signor von Sydow, cosa vuol dire essere un attore? Max von Sydow: Non è una domanda facile cui rispondere. Probabilmente ogni interprete è un essere umano in fuga da qualche aspetto della propria esistenza, ma, allo stesso tempo, è anche alla costante ricerca di altro. Ciò che so è che, quando ti trovi davanti ad una telecamera o su di un palcoscenico, devi dimenticarti completamente di te stesso. Non ha importanza se hai appena ricevuto una pessima notizia o se la tua ragazza ti ha lasciato. Tutto questo non conta più. Devi provare a pensare con la mente e il cuore del tuo personaggio. Non dico che sia semplice, ma è incredibilmente eccitante.

Per quale motivo ha sentito l'esigenza di avvicinarsi all'ambiente artistico? Max von Sydow: Ci sono due motivazioni, una superficiale e l'altra più profonda. La prima riguarda l'ambiente dove sono cresciuto e la formazione ottenuta. La mia famiglia non era particolarmente interessata al teatro e al cinema. Ricordo che avevo già quattordici anni, quando vidi per la prima volta uno spettacolo. Si trattava di Sogno di una notte di mezza estate e rimasi così affascinato che, da quella volta, tornai a vederlo ancora. Circa un anno dopo decisi, con dei compagni di classe, di formare un club teatrale. Ecco, in quel momento credo di aver pensato alla possibilità di un futuro come attore. Per quanto riguarda la ragione meno evidente, invece, bisogna considerare la mia timidezza e la grande solitudine in cui vivevo. Credo di aver affrontato il palcoscenico per vincere questi due aspetti della mia vita e per acquisire anche io la brillante sicurezza di chi sa sempre cosa dire.

Prima che il cinema la conquistasse, il teatro svedese le ha dato la possibilità di forgiare il suo talento in produzioni locali. Cosa porta ancora con sé di quegli anni di formazione? Max von Sydow: In quegli anni in Svezia, se volevi diventare un attore, dovevi provare ad entrare in una scuola di recitazione. Io sono stato particolarmente fortunato, visto che riuscii ad essere ammesso all'Accademia di recitazione Nazionale. In quegli anni non aspiravo minimamente al cinema, ma il direttore della scuola Alf Sjoberg mi vide in uno spettacolo e mi offrì una parte nel film Bara en mor.

Tutto questo accadeva prima dell'incontro più significativo della sua carriera, quello con Ingmar Bergman. Come si sono incrociate le vostre strade? Max von Sydow: Bergman era un personaggio incredibile. Anche lui iniziò a teatro. Aveva dieci anni più di me ed era il direttore del teatro municipale di Malmo, una città nel sud della Svezia. Una sera venne a vedermi recitare in uno spettacolo messo in scena da una piccola compagnia e, al termine, mi chiese di lavorare con il suo gruppo.

Con quattordici film realizzati insieme, lei è diventato l'attore simbolo della cinematografia di Bergman. Cosa vi legava, oltre la passione artistica? Max von Sydow: Ingmar era dotato di una fervida immaginazione cinematografica e di un gran senso dell'humor. Era un uomo brillante, incredibilmente intelligente ed aveva la capacità di leggere velocemente nell'animo delle persone per dedurne il carattere. E, a differenza di quanto si possa credere, era anche molto divertente. Quello che ancora oggi non riesco a capire è come abbia fatto a lavorare tanto. Nell'ambiente si diceva che Bergman scriveva le sue sceneggiature durante l'inverno e la primavera, girava in estate e montava in autunno per far uscire il film a Natale. Credo che il suo segreto fosse la disciplina. Ricordo, ad esempio, che detestava i rumori. Durante le prove e le riprese era molto severo su questo punto.

Insieme avete scritto alcune delle pagine più importanti della cinematografia internazionale. In quei momenti ne eravate consapevoli? Max von Sydow: Assolutamente no, considerate che si trattava sempre di piccole produzioni. Il Settimo Sigillo, ad esempio, venne realizzato nel '53 con un costo limitato. Bergman aveva in mente il soggetto già da due anni, anche se diverso da quello che poi abbiamo visto sullo schermo. Ispirato da un dipinto medievale in una chiesa del 12 secolo, aveva scritto una serie di monologhi attraverso i quali vari personaggi parlavano della propria storia. Il progetto fu presentato ad un produttore di Stoccolma che lo rifiutò perché troppo intellettuale. Dopo il successo economico di un altro film, però, lo stesso produttore decise d'investire su quello che sarebbe diventato Il Settimo Sigillo.

Dopo molta esperienza teatrale e grande cinema d'autore, cosa l'ha condotta fino a Hollywood? Max von Sydow: Io ero molto soddisfatto del lavoro fatto in Svezia, ma durante un festival di Cannes incontrai un agente che iniziò a propormi dei progetti in America. Fu lui a parlarmi del film di George Stevens, La più grande storia mai raccontata. All'inizio rifiutai perché non amavo particolarmente le pellicole bibliche, ma quando il regista mi invitò a Hollywood per parlarne rimasi incredibilmente impressionato dalle loro possibilità tecniche ed accettai. Per quel film rimasi negli Stati Uniti per un anno e poi tornai a casa alla mia solita vita. Da quel momento, però, sono arrivate altre richieste ed ho cominciato a bilanciare il mio lavoro all'estero con quello in Svezia.

Lei ha lavorato con Steven Spielberg, Martin Scorsese e Ridley Scott. Quali qualità deve avere un regista per conquistare la sua fiducia? Max von Sydow: Amo il lavoro di questi artisti e sono stato onorato di partecipare alle loro produzioni. Come attore cerco sempre la varietà, trovo noioso rimanere imprigionato nello stesso ruolo. A volte biasimo la scarsa fantasia o l'eccessiva pigrizia dei casting hollywoodiani. Dopo aver interpretato Gesù, ad esempio, ricordo di aver ricevuto una quantità infinita di offerte per ruoli di papi e cardinali che, naturalmente, ho rifiutato.

Effettivamente la sua è una carriera perfetta colma di aspetti diversi... Max von Sydow: Per un attore è importante essere interessato a cogliere varie opportunità. Senza opportunità non si potrebbe dimostrare nulla del proprio valore. Personalmente io preferisco il teatro all'esperienza cinematografica. Sul palcoscenico si lavora insieme, si crea una magia e si avverte la sensazione di appartenere tutti allo stesso progetto. Questo ci fa sentire molto più creativi.

Per terminare l'incontro, non possiamo non parlare della sua parentesi italiana. Cosa ricorda delle sue esperienze sul set con Rosi, Lattuada e Zurlini? Max von Sydow: Il deserto dei tartari è stata un'esperienza incredibile, così come la collaborazione con Francesco Rosi con cui ho realizzato Cadaveri eccellenti. Valerio Zurlini, pero, è stato soprattutto un grande esteta del cinema. Ricordo che sul set era di grande ispirazione per tutti noi, aiutandoci a trovare lo stile per trasporre quel dramma storico. Per gran parte del film ci portò a girare in Iran, nel bel mezzo delle vastità di un deserto. Ci trovavamo immersi un'atmosfera fantastica, colma di profondità psicologica.