I grandi autori televisivi scendono in campo

Whedon e Moore si confermano grandi autori televisivi risollevando la stagione televisiva USA con Dollhouse e l'atteso finale di Battlestar Galactica.

Ci sono autori ed Autori.
Ci sono modesti artigiani della scrittura che procedono a tentoni nel labirinto delle parole cercando, e a volte fortunosamente trovando, una via d'uscita e ci sono quelli che il labirinto riescono magicamente a crearlo semplicemente descrivendolo con la loro arte.
Dei primi ce ne sono tanti, dei secondi un po' meno, ma di entrambi abbiamo avuto e stiamo avendo dimostrazione nell'ultima stagione di televisione americana.

Basta gettare una rapida occhiata a quello che è diventato Heroes date le premesse e potenzialità ben sopra la media, reduce da due stagioni in cui tutto il lavoro fatto nella prima sembra un miracoloso caso. Le storie sono confuse, gli intrecci forzati, i personaggi incoerenti e sconclusionati e a poco pensiamo che possa servire l'apporto del redivivo Bryan Fuller nello staff degli autori per poter rimettere in carreggiata la serie. Per saperlo dovremo aspettare la prossima, quarta, stagione a cui avrà la possibilità di lavorare fin dall'inizio, ma il guaio ci sembra troppo grande per poter essere risolto.

A pieno titolo nella prima categoria vanno ascritti anche Damon Lindelof e Carlton Cuse, di quelli che il labirinto di cui sopra l'hanno ricevuto generosamente in regalo da un J.J. Abrams che non si è preoccupato di indicare loro la via per uscirne. Fin qui ci stanno sopravvivendo tra alti e bassi, ma i bassi aumentano (in particolare i due episodi chiave della stagione 5 di Lost, 316 e The Life and Death of Jeremy Bentham) e gli alti non fanno certo gridare al miracolo (Namaste). Non ci sentiamo ancora di darli per spacciati, però, e li aspettiamo speranzosi all'uscita.
Ci sono poi quelli che dal labirinto, o meglio dalla prigione, sono fuggiti ma continuano a tornarci, ormai senza scopo o motivo. Per loro il gioco si avvicina alla fine, con la Fox non più desideroso di vederli vagare a vuoto. A loro auguriamo che il finale di Prison Break, previsto per aprile, sia nonostante tutto a testa alta.
A questi esempi aggiungeremmo lo staff di autori di Terminator: The Sarah Connor Chronicles, quelli che forse avevano il labirinto più facile da completare, con almeno metà della strada spianata dall'immenso lavoro preesistente e firmato da James Cameron. Ma ad ogni bivio gli autori continuano a scegliere la strada più difficile, con coraggio, questo dobbiamo concederglielo, ma senza dare l'impressione di saperne il motivo, preoccupandosi di rendere possenti e squillanti i singoli passi, ma senza preoccuparsi della direzione finale.

Ma se stiamo scrivendo queste righe è perchè vogliamo parlare di quelli che, invece, la strada la conoscono bene la percorrono con sicurezza e grazia. In una stagione mediocre che per fortuna aveva già visto scendere in campo Alan Ball sulla HBO con True Blood e Diablo Cody sulla Showtime con The United States of Tara a confermare quanto di buono fatto dal canale con Dexter, due esempi lampanti saltano agli occhi guardando gli ultimi giorni di programmazione televisiva USA.

E' ingiusto per The Sarah Connor Chronicles che Dollhouse vada in onda subito dopo a rimarcare le differenze. E' ingiusto perchè l'episodio Man on the Street dimostra cosa voglia dire, o dovrebbe voler dire, scrivere un prodotto seriale, come gli indizi disseminati nel corso degli episodi (soprattutto dopo tre puntate minori) convergano e portino a compimento la trama. La Dollhouse non sarà più la stessa, Dollhouse non sarà più lo stesso, dopo questo episodio che cambia le carte in tavola, o semplicemente ce le mostra per quello che erano, allargando il gioco e rendendolo più complesso. Se ciò sia sufficiente per salvare la serie ed addirittura donarle una seconda stagione, è presto per dirlo, e la risposta potrà darla solo il pubblico americano.
Allo stesso modo il team di Ronald D. Moore porta a compimento l'opera più rappresentativa della nuova generazione della TV, Battlestar Galactica, con una compattezza, profondità e coerenza mai viste prima in una produzione televisiva di ampio respiro. Le tre ore di Daybreak sono un monumento al racconto televisivo e concludono la vicenda dando il giusto spazio a tutti i temi e personaggi in gioco. Nel corso degli anni la storia si è naturalmente evoluta, ma il team di Moore è cresciuto con lei senza perdere mai di vista i temi della serie, le sue atmosfere ed il suo passo, senza mai forzare o scendere a compromessi.
E non è da tutti.