Hany Abu-Assad: la nostra intervista al regista di Omar e Paradise Now

Il regista di Omar, presto in uscita in Italia, ci racconta le difficoltà di girare in Palestina, l'amore per la settima arte e le speranze di libertà per il suo paese in un lungo incontro fiorentino.

Insieme a Elia Suleiman, Hany Abu-Assad è il nome più noto del cinema palestinese. Le sue opere, che lui stesso definisce una "necessaria resistenza culturale all'occupazione israeliana", hanno fatto il giro del mondo. L'America ha messo gli occhi su di lui candidandolo due volte all'Oscar: nel 2005 con lo sconvolgente Paradise Now, che ricostruisce le ultime ore di vita di due kamikaze, e quest'anno col Omar, sconfitto al rush finale da La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Nel 2011 Hany ha anche avuto la sua unica (per il momento) esperienza lavorativa negli USA confezionando il thriller The Courier. Esperienza non troppo felice visto che il film, mal riuscito, è finito nel limbo delle distribuzioni direct-to-DVD. Il regista, imparando dai propri errori, si è risollevato alla grande con l'acclamato Omar, che presto potremo vedere anche in Italia visto che la New Moon è in trattative per l'acquisto. Nel frattempo il numeroso pubblico presente al Middle East Now, importante rassegna fiorentina dedicata al cinema mediorientale, si gode la prima retrospettiva quasi completa dedicata all'eclettico cineasta, approdato sul set per amore dopo un passato da ingegnere aeronautico in Olanda. Proprio a Firenze abbiamo avuto l'opportunità di intrattenere con Hany una lunga conversazione su cinema, politica, arte, libertà, differenze tra Oriente e Occidente, sull'Oscar e naturalmente anche su La grande bellezza.

Qui a Firenze abbiamo finalmente potuto vedere in anteprima Omar e non possiamo notare che i temi e il finale del film abbiano un sapore shakespeariano. E' una scelta voluta?
Hany Abu-Assad: Assolutamente. Quando ho cominciato a scrivere il film volevo realizzare una love story in stile Romeo e Giulietta o, ancora meglio, Otello, dove il rapporto d'amore è più maturo. Nonostante la forza del sentimento, l'amore a volte uccide l'amore stesso.

Nel film scopriamo che il protagonista, Omar, rischia di essere condannato dai soldati israeliani solo sulla base della frase riferita a un compagno di carcere ("Non confesserò mai"). In Israele questo può essere davvero un elemento di condanna?
La giustizia militare è un mondo a parte. Spesso i prigionieri non subiscono processi veri e propri, ma acettano le regole imposte dall'esercito. Tutto può essere fonte di condanna. Quando c'è un'occupazione accade questo.

Hai avuto problemi con la censura o con le autorità per girare Omar?
Ho girato Omar in Palestina. Il film è costato due milioni di dollari. Non ho avuto problemi a girare il film, perché le autorità sapevano che la stampa internazionale mi avrebbe fatto questa domanda e in questo modo non avrei avuto storie negative da raccontare. Il film è stato apprezzato da tutti, ha avuto una distribuzione limitata in Israele e perfino i critici dei giornali di destra ne hanno parlato bene. E' piaciuto anche ad Hamas con un'eccezione: non hanno apprezzato la scena del bacio.

Quale è stata la loro obiezione?
Hamas ha un background islamico; per loro la scena del bacio è qualcosa di proibito. Hanno chiesto di tagliare la scena, ma non hanno alcuna autorità sul film. La nostra cultura è molto ricca nell'esprimere le emozioni umane. La letteratura araba erotica ha un'antichissima tradizione che si riflette anche nelle arti figurative. Negli anni '60 e '70 in Egitto c'era una tradizione di cinema erotico e sentimentale, che conteneva anche scene di nudo. Negli ultimi anni la chiusura mentale e il fanatismo religioso hanno preso piede influenzando i governi e l'opinione pubblica e limitando la libertà artistica.

Come hai trovato i fantastici protagonisti di Omar?
Abbiamo fatto molti provini, molti attori sono stati richiamati e visionati più volte in situazioni diverse. Il casting è durato sei mesi. In seguito ho tenuto un workshop con gli attori e abbiamo fatto moltissime prove, lavorando costantemente sullo sviluppo dei personaggi. Durante le riprese ho cercato di fare tutto il possibile per far sembrare realistica ogni situazione. Nella scena in cui degli attori viene ferito al collo abbiamo dovuto usare un trucco. Gli abbiamo fatto provare del dolore fisico vero stringendogli un polpaccio per aiutarlo a simulare la sofferenza.

Hai sempre avuto fiuto per gli attori lanciando nuovi talenti, ma non torni mai a recitare con gli stessi interpreti. Come mai?
Mi piace di più plasmare gli attori, farli crescere e poi lasciare che seguano le loro carriere. Sono convinto che agli inizi gli attori abbiano un'innocenza su cui il regista pouò lavorare. Quando un'attore è affermato, è più difficile ritrovare questo sentimento.

Quale è la situazione del cinema palestinese oggi? Tu che hai lavorato anche negli USA, come riesci a passare attraverso due mondi così diversi?
Mi piacciono gli estremi. Per passare indenne attraverso queste due realtà non si può seguire un dogma, ma occorre essere elastici e reinventarsi di continuo. Il cinema palestinese è pionieristico, tutti fanno tutto. In America è esattamente il contrario, sul set c'è una specializzazione estrema e ognuno ha un compito ben preciso. Se non vengono rispettate le regole, arrivano i sindacati.

Sembra che a impensierirti non sia tanto la censura palestinese, quando i sindacati americani.
E' vero. Temo molto di più il sistema americano, apparentemente libero, ma in realtà pieno di regole, dei problemi palenstinesi. Quando lavoro nel mio paese io mi sento più libero.

E la situazione della distribuzione cinematografica palestinese com'è? L'embargo di Israele vi crea problemi?
Il cinema puoi esportarlo tramite Internet. Un film può uscire dal paese più facilmente di un oggetto, perciò l'embargo israeliano non influisce.

Nel 2005 hai realizzato Paradise Now. Il titolo del film riprende quello di uno spettacolo del Living Theatre. E' un omaggio esplicito a una tradizione anarchica e libertaria?
Conosco lo spettacolo, ma il titolo del mio film richiama Apocalypse Now di Coppola. Nei fatti gli americani, mentre giravano un film sull'inferno, si trovavano in paradiso. Noi palestinesi viviamo nell'inferno e vogliamo il paradiso.

Nella seconda parte di Omar, il protagonista tenta di scalare nuovamente il muro che separa i quartieri, ma non ce la fa. Allora un passante palestinese lo aiuta. E' un invito a non bollare il traditore?
La redenzione è un tema centrale sia in Omar che in Paradise Now. Io vengo da Nazareth, la città di Gesù, in cui siamo tutti ossessionati dal senso del peccato e della redezione.

Il finale di Omar è l'unico ipotizzato o ne avevi pensato un altro?
Il finale è sempre stato questo. Proviene da un articolo di giornale che avevo letto 4/5 anni fa. Mi è tornato in mente quando ho cominciato a scrivere il film e ne ha influenzato tutta la struttura perché è l'unica mossa che viene concessa a Omar per redimersi.

Lo stile dei tuoi lavori, con i campi lunghi insistiti che seguono i personaggi, ricorda un po' il western. Quali sono i tuoi modelli?
Per rispondere ti leggerò gli appunti che avevo scritto prima di iniziare a girare Omar. Il film dovrà essere realizzato nella tradizione di Rosetta dei Dardenne, dovrà avere l'estetica visiva de I senza nome e Frank Costello faccia d'angelo di Melville, la fatalità di Sin nombre, la passione di 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni, la libertà di Hunger e Gomorra, lo spirito de Il profeta, inoltre dovrà possedere un proprio humor.

Hai vissuto a lungo in Europa. Come riesci a mantenere uno sguardo lucido sulla situazione della tua terra pur essendo lontano?
Proprio essendo distante, riesco a cogliere il quadro generale da una certa distanza e sono ottimista sul futuro. Nella storia non esiste un'oppressione durata per sempre. E' un dato e sono convinto che prima o poi anche noi saremo liberi. Come regista, voglio che i miei film non siano legati a un particolare contesto, voglio che superino la fase dell'occupazione e che raccontino storie universali.

Cosa significa, per te, fare cinema politico?
Le mie storie, nello specifico, non sono storie politiche, ma ogni film è un prodotto politico. Ciò che noi palestinesi dobbiamo fare per conquistare la nostra libertà è resistere e una forma di resistenza è la cultura. I prodotti culturali ci liberano, ci elevano, sono storie umane, realizzare in maniera indipendente.

Nel corso della tua carriera hai ricevuto due candidature all'Oscar. Che esperienza hai avuto con l'Academy?
Quella per il film straniero è una categoria minore. I punti forti dell'Academy sono i premi a miglior film, migliori attori. Io ho svolto solo un ruolo da comparsa e penso di averlo svolto bene.

A sconfiggerti quest'anno è stata La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Hai visto il film?
L'ho visto e mi è piaciuto, soprattutto le musiche e la fotografia, ma confesso che queste storie di decadenza mi annoiano. Amo molto Lars von Trier, ma Melancholia mi ha infastidito. Che cosa dice in fondo? Sorrentino, come me, è stato un'ottima comparsa agli Oscar. Lui stesso ha confermato il mio pensiero dichiarando che per anni ha cercato di fare film che parlassero di qualcosa. Stavolta ha fatto un film sul nulla che è piaciuto a tutti e si è portato a casa l'Oscar.

Quale sarà il tuo prossimo film?
Sto lavorando a tre diversi progetti, uno negli Usa, uno in Europa e uno in Palestina. Non so ancora quale prenderà forma prima. Partiremo con quello per cui troveremo i finanziamenti.