I gufi non sono quello che sembrano, faceva dire tanto tempo fa a un suo personaggio David Lynch. Nel momento di scrivere la recensione de Gli uomini d'oro, il film di Vincenzo Alfieri in uscita il 7 novembre, queste parole ci sono venute subito in mente. Perché, a una prima occhiata al cast (Fabio De Luigi, Edoardo Leo, Giampaolo Morelli), la sensazione è quella di trovarsi in una commedia, o almeno in un heist movie virato in commedia, qualcosa alla Take Five o Smetto quando voglio.
Invece, dopo la prima scena, appena il film entra nel vivo, abbiamo tutto molto chiaro. Siamo in un crime noir puro, cupo, amaro. Un'operazione estremamente coraggiosa da parte del cinema italiano, che speriamo il pubblico si senta di premiare. I tre attori di cui parliamo si sono gettati coraggiosamente nell'impresa, e hanno fatto centro.
La trama: quel maledetto furgone blindato
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a 0, quando si procurano un rigore che Ravanelli trasforma. In questo momento, per tre volte, parte la storia. Luigi Meroni (Giampaolo Morelli) lavora alle poste, e gli è negata la pensione baby che gli permetterebbe di lasciare il lavoro. Ogni giorno guida un furgone blindato portavalori e va a ritirare sacchi pieni di soldi agli uffici postali. Con un suo collega, Luciano Bodini (Giuseppe Ragone, ma notate la finezza dei nomi, che sono quelli dei giocatori di Juve e Torino), capisce che nel sistema di ritiro del denaro c'è una falla, e che potrebbero fare un grande colpo. Per metterlo a segno coinvolgono Alvise Zago (Fabio De Luigi), grigio travet che soffre di cuore e fa tre lavori per mantenere la famiglia. Nella storia entrano anche il Lupo (Edoardo Leo) e Gina (Mariela Garriga), la sua fidanzata cubana. Ma anche Anna, una ragazza dolcissima (Matilde Gioli) di cui Luigi si innamora.
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Non è la Torino di Davide Ferrario e Marco Ponti
Siamo nella Torino già decantata da Davide Ferrario e Marco Ponti. E, quando c'è di mezzo Torino, c'è sempre una grande atmosfera. Ma qui non siamo né alla Mole Antonelliana, né a quello che era lo Stadio delle Alpi. Siamo in una città grigia, cupa, opprimente fuori, nel tran tran quotidiano. E fluorescente dentro, con i neon che brillano nelle discoteche e nell'appartamento di Luigi. Questo contrasto, abbastanza evidente, rappresenta il contrapporsi di realtà e sogni, quotidianità e aspirazioni. Vincenzo Alfieri è un ragazzo della generazione cresciuta nel precariato e, pur parlando del 1995, racconta i nostri giorni, quelli delle persone costantemente in ansia per il denaro, costantemente frustrate, costantemente sottopagate. Se nella storia de Gli uomini d'oro c'è un filo di amarezza è anche per questo.
Fabio De Luigi, Edoardo Leo, Giampaolo Morelli: la sfida è vinta
Come avrete capito, Gli uomini d'oro non ha niente a che fare con Sette uomini d'oro di Marco Vicario, guilty pleasure sixties che era un giallo-rosa. Il film di Vincenzo Alfieri è un nero-nero, un film che ha delle scelte piuttosto coraggiose per la media delle produzioni italiane. Il film si permette addirittura una scena di sesso piuttosto realistica e intensa, dove il nostro cinema di solito sfuma, e molti momenti ad alta tensione drammatica. In tutto questo le interpretazioni del cast. Su tutte quella di Fabio De Luigi, finora mai uscito dalla comfort zone della sua comicità stralunata figlia della sua innata simpatia. Il suo Alvise Zago è grigio, cupo, rancoroso, e in tutto il film non accenna mai un sorriso: la sua è una prova notevole. Se Edoardo Leo, per anni è stato il bravo ragazzo delle nostre commedie, l'eterno precario che riusciva a svoltare, ha avuto già esperienze drammatiche prima: il suo Lupo è un personaggio nero come la pece, cattivo e deluso, e ha rappresentato una grande sfida anche a livello di trasformazione fisica, visto che ha messo su dieci chili in pochissimo tempo.
Giampaolo Morelli è quello che, visto il personaggio, ha modo di lasciare un po' più libera la sua vena brillante e, cosa che in realtà il nostro cinema lascia fare poco, anche il suo sex appeal. Questo grazie anche alla chimica con Matilde Gioli, che alla voce sex appeal non scherza, ma ha lavorato per rendere la sua una sorta di ragazza incantata, una figura quasi da sogno, lavorando sull'ampiezza dello sguardo e sulla dolcezza delle espressioni. Alla voce sex appeal risulta anche Mariela Garriga, attrice cubana dal fisico mozzafiato e dal volto dolcissimo. In un contesto così duro serviva un clown (non un Joker, attenzione), e lo impersona Giuseppe Ragone, anche lui una sorpresa.
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Tra Tarantino, Inarritu e... Virzì
Avrete capito anche che, non essendo in un genere di film molto italiano, i riferimenti non siano italiani. La struttura del film, infatti, è a capitoli (Il playboy, Il cacciatore, Il lupo) e, a ogni capitolo, la vicenda riparte da zero (da quel rigore di Ravanelli in Juve-Toro), e assistiamo alla stessa trama, ma vista da punti di vista diversi. È naturale allora pensare a Quentin Tarantino, che pure a questo all'espediente dei punti di vista è ricorso in parte, in una scena di Jackie Brown e nel finale di Pulp Fiction. Ma anche al Miguel Gonzales Iñárritu di Amores Perros. E soprattutto, restando in Italia, a Il capitale umano di Paolo Virzì, uno dei rari esempi in cui un film di casa nostra non sembrava tale. L'idea che ogni capitolo dia altra luce al racconto, svelandone altri particolari, lo avvicina proprio a quel film, citato proprio dal regista tra i suoi modelli. La differenza è che quel film è tratto da un romanzo, e questo da una storia vera.
I favolosi anni '90... o anni '80?
È anche molto interessante il lavoro di contestualizzazione fatto da Alfieri. La vicenda si svolge tra il 1995 e il 1996, ma spesso, soprattutto nelle scene in interni, in discoteca e negli appartamenti, c'è un evidente sapore anni '80. È da lì che arrivano i neon fluorescenti ed è a quelli che ammicca la colonna sonora originale, un lavoro synth-pop che richiama immediatamente lo score di Stranger Things. Anche le canzoni originali oscillano tra le due epoche: c'è Rhythm Is A Dancer degli Snap (1992), ma anche le meravigliose Alive And Kicking dei Simple Minds (1985) e Lullaby dei Cure (1989). Gli anni Ottanta sono un'epoca che Alfieri non ha vissuto, ma che ha trovato più caratterizzante, a livello estetico, di quella dei Novanta. E così è partito da qui per costruire il suo mondo.
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Che cosa manca?
Eppure manca ancora qualcosa a Gli uomini d'oro per arrivare ad altri prodotti italiani che non sembrano italiani, come Lo chiamavano Jeeg Robot e Il capitale umano. Probabilmente per fare un cinema di questo tipo devi spingere ancora di più su intreccio e interpretazioni, devi andare un po' sull'iperbole. E poi sembra che, pur volendo fare un cinema di genere, alla commedia si tenda ad aggrapparsi sempre un po', magari al minimo indispensabile, forse per provare ad attrarre spettatori. Ma è un difetto lieve. Gli uomini d'oro resta comunque un ottimo film.
Conclusioni
Dalla recensione de Gli uomini d’oro avrete capito che siamo in un crime puro, un heist movie drammatico, cupo, amaro. Un’operazione estremamente coraggiosa da parte del cinema italiano, che speriamo il pubblico si senta di premiare. Gli attori si sono gettati coraggiosamente nell’impresa, e hanno fatto centro.
Perché ci piace
- Il coraggio di fare un film di genere, un crime a tratti drammatico.
- L’atmosfera del film: la vicenda si svolge tra il 1995 e il 1996 ma spesso c’è un evidente sapore anni ottanta.
- Le sfide interpretative: su tutte quella di Fabio De Luigi, un personaggio grigio, rancoroso, che in tutto il film non accenna mai un sorriso.
Cosa non va
- Pur volendo fare un cinema di genere, tende ad aggrapparsi ancora un po' alla commedia.