Quante volte avete letto o sentito da un vostro amico cinefilo "Ma questo è un sequestro di persona!", in merito alla durata di un film? Ecco. Allora, andando un po' a memoria, proviamo a rispondere alla domanda: ma i film oggi durano troppo? Domanda, però, che andrebbe riformulata, aggiungendo una disgiuntiva: ma i film oggi durano troppo oppure siamo noi che ci annoiamo troppo in fretta? Il punto, ancora una volta, è soggettivo. È il nostro approccio personale a risentire del timing effettivo di un film, un po' come avviene per la temperatura. C'è quella scientifica e quella percepita. Stessa cosa al cinema. "Puoi durare tre ore solo se sei Tarantino", altra frase inflazionata che vorrebbe essere ad effetto, dimostrando, tra l'altro, una limitata pazienza e una limitata conoscenza. Per qualche strano caso, si è deciso che si possono sforare le due ore in rarissimi casi, e solo in relazione ad un numero ristrettissimo di autori.
Una volta c'era Via col vento, trasmesso in tv in due serate, o altri titoli bollati come "polpettoni" europei e/o asiatici, limitati ai percorsi festivalieri. Adesso, con il tripudio dei pareri social, pare ci sia una nuova moda ad Hollywood che se ne infischia del montaggio, saltando di netto il beneficio della sintesi. Anche qui ci vorrebbe equilibrio. Non è la durata a fare la differenza, ma come si padroneggia il tempo in fase di scrittura e regia.
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Babylon, TÁR e la durata in relazione al contenuto
Certo, come proviamo a spiegare nel nostro approfondimento, ci sono dei film che, in fase di montaggio, tagliano un po' troppo poco, risultando effettivamente indigesti e abbondanti. Se è meglio un piatto proporzionato che stra-caricato, è la stessa proporzione il fulcro di questo concetto, che vogliamo espandere proprio dopo aver calcato l'umore generale che viaggia attraverso la grancassa dei social. Accade dunque che lo splendido Babylon di Damien Chazelle, che supera le tre ore, venga percepito come "noioso", senza considerare che all'interno del film c'è condensata un'intera epoca cinematografica. Accade pure che un altro grande film, come TÁR di Todd Field, e cucito su misura a Cate Blanchett, possa essere mal digerito perché sfiora le tre ore. Eppure, ogni inquadratura di Field è essenziale, organica alla storia, coesa alla poetica che si è poi prefissato il montaggio di Monika Willi, infatti candidata all'Oscar.
Tagliando a metà l'dea, e ragionando per immediatezza, l'approccio cinematografico del pubblico si è ribaltato: non era affatto strano, fino a quindici anni fa, per un autore, sforare le due ore - Scorsese, Cameron, Tarantino, per citarne tre a caso - ed era popolarmente accettato. Ora il pubblico è cambiato, e si accettano i 150-160 minuti solo quando si parla di franchise, di saghe, di blockbuster seriali. Il resto, appunto, è "sequestro di persona". Tuttavia, l'informazione cinematografica dovrebbe analizzare e spiegare i flussi e le tendenze, e quindi la disgiuntiva che apre l'articolo gioca un ruolo fondamentale, 'sta volta senza punto di domanda: la verità è che ci annoiamo subito. Tendiamo a distrarci, a mostrare insofferenza, a non poter gestire la situazione. Incollati in sala per tre ore, con lo smartphone che ha perso il segnale. Ci sentiamo in trappola, obbligati a restare fermi, aspettando la fine che non arriva.
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L'esperienza, le serie e le nostre capacità di attenzione
Ma com'è possibile che anche il cinema sia diventato uno "strumento di tortura"? Semplicemente, è stato stravolto il concetto di visione, alterandone i confini. Alfred Hitchcock, in una delle sue tante massime, diceva che "la durata di un film dovrebbe essere direttamente commisurata alla capacità di resistenza della vescica umana". Ora, potremmo dire che dovrebbe essere commisurata in base alla nostra capacità di non scrollare Instagram. Lungi dalla volontà di generalizzare, ma la questione tiene banco e va affrontata: la visione casalinga, che ci permette di vedere in totale libertà un film, ha riscritto il tacito accordo tra spettatore e opera. Possiamo interrompere la visione, fare una pausa, riprendere il filo in un secondo momento. Addirittura, possiamo aumentare la velocità di riproduzione. Siamo noi a controllare il film, e non il film che controlla noi. Di conseguenza, le tre ore di Babylon non vengono accettate, ciononostante vengono accettate le tre ore e dodici minuti di Avatar: La Via dell'Acqua, perché il film è considerato "un'esperienza".
A riguardo, è interessante l'analisi di Steven Soderbergh che, presentando Magic Mike - The Last Dance (tranquilli, dura poco), ha probabilmente centrato il punto. "[...] I film non occupano lo stesso spazio culturale di prima. La crescita della televisione ha influito, ma in termini di cultura non contano come vent'anni fa. Di conseguenza, soprattutto per gli spettatori più giovani, non è più così interessante [...]". Qui si aprirebbe un altro discorso, e di quanto l'ideale cinematografico stia subendo delle pericolose turbolenze: per qualità e attitudine non c'è più nessuno scarto tra il cinema e la serialità, ed entrambi i linguaggi sono sovrapponibili. Esempio: The Last of Us è un film di nove ore, suddiviso in nove puntate, ma pochi rimarcano che la terza (meravigliosa) puntata dura quasi un'ora e mezza. Praticamente, un film! Insomma, se passa il concetto che una pellicola deve durare necessariamente novanta minuti, si va a perdere l'essenza stessa del cinema, rimarcata - all'interno di uno strano circolo vizioso - dagli stessi che santificano la sacralità del grande schermo. Quindi, delle due, una. Anzi, la terza: la durata giusta di un film (o di un episodio...) è quella che non ti fa controllare l'orologio, facendoti perdere la concezione del tempo. Del resto, come vuole il famoso proverbio afghano, che riassume la frenesia occidentale: "Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo". Sembra scontato, eppure...
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