Dopo aver dimostrato di saper attingere alla tradizione neorealista riadattandola e modernizzandola in La terra dell'abbastanza, con Favolacce Fabio e Damiano D'Innocenzo hanno messo in chiaro la loro voglia di distinguersi come voce unica nel panorama cinematografico nostrano. Rispettosi dei padri, ma solo fino a un certo punto, i gemelli romani non nascondono la loro ambizione guardando a modelli alti a partire da Matteo Garrone, con cui hanno collaborato per la sceneggiatura di Dogman, e a tanto cinema internazionale di qualità, per poi affrancarsene alla ricerca di un'impronta personale.
Il coraggio di Fabio e Damiano D'Innocenzo sta nel non cercare l'originalità a tutti i costi. Il loro cinema è spiazzante, ma non in maniera programmatica. In cima alla lista delle priorità dei due cineasti sembra esserci la voglia di raccontare ciò che sta loro a cuore, sentimenti, situazioni e stati d'animo comuni a molti, ma mai rappresentati in maniera banale. L'irrequietezza giovanile de La terra dell'abbastanza e la fatica del quotidiano di Favolacce sono condizioni condivise da molti e il modo in cui vengono narrate non prescinde mai dalla forma. Attenzione alla veridicità dei sentimenti, cura formale, sguardo non comune, consapevolezza del linguaggio e sicurezza nella direzione degli attori rappresentano doti preziose, già intraviste ne La terra dell'abbastanza, che in Favolacce giungono a compimento. Sicuramente è presto per applicare etichette, ma se il buongiorno si vede dal mattino possiamo azzardarci ad affermare che le qualità emerse in Favolacce lo rendono il perfetto rappresentante del futuro del cinema italiano.
Sguardi d'autore sul reale
Favolacce, disponibile in streaming dall'11 maggio, sposa la forma del racconto corale raccogliendo una manciata di storie diverse, veicolate da personaggi accomunati dalla prossimità spaziale. Amici, parenti, vicini di casa, abitanti dello stesso quartiere uniti da una simile condizione socioeconomica. L'unità di misura del film è la famiglia, declinata nel rapporto genitori/figli e nella sua variante maestri/allievi. Esistenze normali, almeno in apparenza, la cui visione genera un'inquietudine inspiegabile. Fabio e Damiano D'Innocenzo riescono a raccontare il quotidiano attraverso piccoli, ma significanti dettagli. Ogni gesto, ogni dialogo, ogni incontro, ogni pausa ha valore in sé come tassello di un puzzle il cui senso profondo sarà apprezzabile solo nel finale.
Quella di Favolacce è una narrazione moderna, che affronta il quotidiano portando avanti sottotraccia il vero tema dell'opera: il nuovo perturbante. Anche quando non accade niente di rilevante (almeno in apparenza), quel niente contiene echi inquietanti. Una sottile tensione serpeggia in tutto il film generando nello spettatore la consapevolezza che qualcosa di terribile possa accadere da un momento all'altro. Da questo punto di vista, i fratelli D'Innocenzo sembrano aver appreso alla perfezione la lezione impartita da opere come L'imbalsamatore o Dogman. A differenza dei lavori di Matteo Garrone, però, in Favolacce manca l'esibizione estetizzante del grottesco, che è invece sottilmente integrato nella storia tanto che lo spettatore ne percepisce la presenza solo a posteriori, come quando ci si risveglia da un brutto sogno.
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Nati ai bordi di periferia
Di fronte a un cinema italiano prettamente urbano, il cinema dei fratelli D'Innocenzo è caratterizzato da un movimento centrifugo. Dopo la periferia di La terra dell'abbastanza, approdiamo alla provincia di Favolacce. Prati, laghetti, villette a schiera, spazi aperti in cui dominano silenzio e solitudine, ma anche frustrazione e volgarità. La dimensione meditativa che caratterizza Favolacce è plausibile solo lontano dal caos cittadino, in una bolla pronta a scoppiare alla prima occasione. Con precisione chirurgica, in Favolacce l'uso delle location è subordinato alla narrazione. I D'Innocenzo ricostruiscono la loro Spinaceto straniante a Nepi senza preoccuparsi di restare fedeli alla realtà. A differenza di tanti colleghi, i gemelli romani non sono malati di realismo, il loro cinema è costruito tanto quanto l'immagine della periferia fornita da Favolacce con le sue casette con giardino, i barbecue e le piscine gonfiabili, tutto compresso in pochi metri quadri a imitazione di un benessere solo di facciata. Una manipolazione della realtà che ricorda le periferie deviate di Velluto Blu, The Truman Show o Edward mani di forbice, la cui apparenza linda e ordinata cela orrori e inquietudini. Il tutto, però, in una declinazione meno stilizzata e più terrena in cui la Spinaceto dei D'Innocenzo si fa luogo dell'anima e la componente geografica viene sacrificata a scapito di tematiche universali.
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Fiabe per bambini... o per adulti?
Fin dal titolo, geniale crasi tra i termini favole e parolacce, Favolacce denuncia l'adesione a una delle più antiche forme di narrazione orale. Filiazione confermata dalla voce fuori campo di Max Tortora che annuncia il rinvenimento del diario di una bambina in cui si raccontano una serie di eventi che il narratore si dichiara ben felice di riportare. Questo incipit instaura con lo spettatore un patto che verrà in parte disatteso, visto che la natura della storia e il suo finale sono ben lontani dalla natura della fiaba classica (quella flessione dispregiativa nel titolo avrebbe dovuto metterci in guardia fin dal principio), ma chiarisce fin da subito il punto di vista a cui i D'Innocenzo aderiscono per tutto il racconto.
A discapito dell'interazione quotidiana, anzi costante, il mondo degli adulti e quello dei bambini sembrano impossibilitati alla reciproca comprensione e comunicazione. I genitori di Favolacce urlano, strepitano, lottano per sbarcare il lunario e per garantire ai figli un futuro decente, ma questi ultimi sembrano recepire solo la violenza, la vologarità, la mediocrità dell'universo adulto. L'unico a far breccia nella loro oasi di distacco sarà, guarda caso, un insegnante il cui ruolo, nelle mani dei D'Innocenzo, viene amplificato fino a distorcersi. La sottigliezza con cui questo rapporto tra il mondo dell'infanzia e quello adulto viene messo in scena può appartenere solo a un cinema illuminato, fatto da autori che hanno un controllo totale sulla storia in ogni singola sfumatura oltre a una gestione eccezionale degli attori (tra cui i piccoli protagonisti, tutti eccellenti). Un cinema in cui giudizi morali e posizioni politiche lasciano spazio all'osservazione dei personaggi in ogni loro intima sfaccettatura, a una simbiosi foriera di complessità di cui sentivamo il bisogno da troppo tempo. Perché l'essere umano è più complesso di come lo si vorrebbe categorizzare e come insegnano i D'Innocenzo, l'unico modo per avvicinarsi a tale complessità è far risuonare l'anima del creatore insieme a quella delle sue creature.