"Perdere? Questo è un conclave, Aldo, non una guerra." "Sì che è una guerra, e tu devi schierarti da una parte!"
Nel panorama cinematografico, il nome di Edward Berger si è fatto conoscere due anni fa, quando su Netflix è approdato Niente di nuovo sul fronte occidentale: la trasposizione dell'omonimo romanzo di Erich Maria Remarque, una delle più celebri opere letterarie incentrate sulla Prima Guerra Mondiale. Dopo la valanga di elogi per il suo dramma bellico (sette BAFTA Award, tra cui miglior film e regia, e quattro premi Oscar, incluso il trofeo come miglior film internazionale), il regista tedesco è appena tornato a riscuotere consensi su larga scala con un altro adattamento dalla letteratura: Conclave, tratto dall'omonimo libro di uno specialista dei thriller politici, il britannico Richard Harris (autore di Fatherland, Il ghostwriter e L'ufficiale e la spia), i cui romanzi sono approdati spesso sul piccolo e grande schermo.
A legare due progetti in apparenza piuttosto diversi è l'intima natura al cuore di Conclave: un racconto che, come già Niente di nuovo sul fronte occidentale, è essenzialmente la storia di una guerra. Al fronte franco-tedesco, in questo caso, si sostituisce un campo di battaglia ben più suggestivo: la Città del Vaticano, lo Stato più piccolo del mondo, teatro dell'elezione del più importante leader spirituale della cristianità. Un teatro che, nel film di Berger, si suddivide fra due distinti palcoscenici: la Cappella Sistina, sede deputata alle votazioni da parte dei centodiciotto Cardinali riunitisi a Roma da ogni angolo del pianeta; ma soprattutto la Domus Sanctae Marthae, che non si limita a ospitare i membri della Curia per tutta la durata del conclave, ma funge da cornice ai patti di alleanza, alle macchinazioni e ai confronti che precedono e seguono ogni votazione.
Conclave: la "guerra santa" nei corridoi del potere del Vaticano
Conclave, dunque, è a proprio modo un film di guerra, in cui il rituale plurisecolare per stabilire la successione al trono di San Pietro si svolge secondo i ritmi, le atmosfere e il linguaggio di un thriller: dalle ambientazioni oscure e claustrofobiche negli angusti "corridoi del potere" del Vaticano a un clima di paranoia degno della New Hollywood. Non è un caso, forse, che la battuta più divertente del film contenga un esplicito riferimento al Watergate: "Non potrei mai diventare Papa in queste circostanze: un documento ruato, la diffamazione di un fratello Cardinale... sarei il Richard Nixon dei Papi!".
In questo aspetto, alla radice del successo che Conclave sta raccogliendo sia presso il pubblico che fra la critica (sei nomination ai Golden Globe e tra i favoritissimi ai prossimi Oscar) emerge appieno il talento di Edward Berger, in grado di innervare ogni scena di una tensione palpabile, e dello sceneggiatore britannico Peter Straughan, che si era già cimentato in un'impresa analoga con il suo adattamento de La talpa.
Dagli intrighi spionistici ripresi dal romanzo di John le Carré si passa a uno scontro fra visioni opposte della Chiesa, assimilabili alle differenti prospettive ideologiche sulla società contemporanea. Da un lato si raccoglie la fazione più liberale del clero: quella intenzionata a stringersi attorno al Cardinale statunitense Aldo Bellini, affidato a un ottimo Stanley Tucci, e a cui afferisce anche Thomas Lawrence, il Decano del Collegio cardinalizio, interpretato con profonda gravitas e sommessa inquietudine da un magnifico Ralph Fiennes.
Dall'altro ci sono le frange più conservatrici, arroccate nella difesa a spada tratta della tradizione: frange che fanno capo al nigeriano Joshua Adeyemi (Lucian Msamati), "che crede che gli omosessuali vadano mandati in prigione in questo mondo e all'inferno nel prossimo", e all'italiano Goffredo Tedesco (Sergio Castellitto), alfiere di una rigida chiusura davanti a ogni forma di diversità e di una nuova "guerra santa" come risposta alle istanze più drammatiche del ventunesimo secolo.
Conclave, la recensione: siamo tutti peccatori nel grande film di Edward Berger
L'eterna Babele e l'elogio del dubbio
Il conclave del film, del resto, è tutt'altro che isolato rispetto alla realtà esterna, a dispetto dell'etimologia del termine: mentre fra i Cardinali si consuma la lotta per il soglio pontificio, a pochi metri di distanza Roma è scossa - letteralmente - dalle bombe di una catena di attentati terroristici, la cui eco irrompe fragorosa perfino nel silenzio della Cappella Sistina. Pertanto la Chiesa diventa, per sineddoche, lo specchio di un mondo dilaniato da angosce, divisioni e conflitti: il mondo del post-11 settembre e di un integralismo in cui spesso si intrecciano religione e politica, ma anche un Occidente segnato dal costante braccio di ferro tra una visione progressista della società e i sovranismi - etnici, politici e, appunto, religiosi - delle estreme destre. Quello stesso Occidente che, in contemporanea all'uscita del film, assisteva alla rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca sull'onda di una retorica sempre più razzista e xenofoba.
Alla vigilia della prima seduta del conclave, Tedesco indica a Lawrence la distribuzione dei Cardinali nella sala da pranzo, registrando con sorniona malizia l'assenza di una reale unità all'interno della Chiesa: tutti i prelati siedono solo accanto ai propri connazionali, come in un'eterna Babele in cui, al di là delle rispettive lingue, non sembra possibile costruire un vero dialogo... neppure nello Stato più piccolo che esista.
Allora, pare suggerirci il film, l'unica replica efficace al cinismo di Tedesco risiede nell'elogio del dubbio pronunciato dal Cardinale Lawrence di Ralph Fiennes durante il sermone nella Basilica di San Pietro: "La nostra fede è una cosa viva precisamente perché cammina mano nella mano con il dubbio. Se ci fosse solo certezza e nessun dubbio, non ci sarebbe il mistero... e dunque nessuna necessità di fede. Preghiamo che Dio ci conceda un Papa che dubita".