Tu pensavi che questa città avesse bisogno di te, ma non è così. Perché lei è più grande di te.
C'è una rassegnata consapevolezza nelle parole pronunciate in Babylon dalla reporter Elinor St. John all'indirizzo di Jack Conrad, ex-divo del muto la cui carriera sta attraversando un inesorabile declino. È una consapevolezza venata di malinconia, ma accompagnata pure da una spietata lucidità, frutto dell'occhio clinico di una giornalista che, da dietro le quinte, riesce a cogliere con precisione infallibile lo spirito della propria epoca (e spesso addirittura ad anticiparlo). Del resto, quale maggior prova di lucidità del paragonare se stessi a una blatta? "Hai mai notato che quando una casa viene distrutta da un incendio sono le blatte a sopravvivere?", è la chiosa lapidaria di Elinor, mentre Jack si affanna ad interrogarsi sul suo precario futuro. Ma se anche la casa verrà ridotta in cenere, se Jack e tante altre stelle - insieme a lui e dopo di lui - spariranno tra le fiamme, tuttavia avranno la fortuna di continuare a esistere per intere generazioni a venire: "Trascorrerai l'eternità tra angeli e fantasmi".
Simile al cinico Addison DeWitt di George Sanders nell'immortale Eva contro Eva, Elinor St. John, a cui presta volto e voce una sopraffina Jean Smart, ha un punto di vista privilegiato sul mondo dello show-business: ne fa parte in maniera tangenziale, senza mai essere sotto i riflettori, ma proprio per questo è in grado di osservare la babilonia intorno a sé senza farsi accecare dalla sua luce. E all'interno di un film rutilante e ipercinetico, il lungo dialogo fra lei e Jack costituisce un momento sommessamente doloroso: perché a Elinor, con la pacata autorevolezza che le conferisce Jean Smart, spetta il compito di illustrare la natura 'industriale' della "fabbrica dei sogni" hollywoodiana. Una natura magari crudele, ma che non preclude la componente di magia insita nel cinema, la sua promessa di immortalità: una dicotomia che fa da perno all'opera di Damien Chazelle e da cui hanno origine splendori e miserie dei suoi personaggi.
La Hollywood Babilonia di Damien Chazelle
Uscito quasi all'unisono con un'altra magnifica pellicola dedicata alla settima arte, The Fabelmans di Steven Spielberg (dove però l'attenzione si focalizza sull'energia creativa di chi sta dietro la macchina da presa), Babylon potrebbe attestarsi, con il trascorrere degli anni, come uno dei più importanti film su Hollywood mai realizzati. Confidando nel fatto che il tempo si dimostrerà più generoso verso il monumentale affresco dipinto da Damien Chazelle, ineluttabilmente divisivo e andato incontro a un preventivabile fiasco: una sorte già toccata a molti grandi o grandissimi titoli, che hanno richiesto una certa distanza per veder riconosciuto appieno il proprio valore. Questo, del resto, è il rischio dell'ambizione: e l'ambizione, in Babylon, appare smisurata, a tratti perfino suicida. A partire dall'idea stessa, nella realtà post-pandemica del 2022, di girare un kolossal della durata di tre ore sulla Hollywood di quasi un secolo fa, in cui the ones who dream non hanno la rasserenante innocenza dei protagonisti di La La Land.
Babylon rappresenta infatti l'altra faccia, o piuttosto il lato oscuro, del popolarissimo musical diretto nel 2016 da Damien Chazelle, diventato a trentadue anni il più giovane regista insignito dell'Oscar. Alle analogie di facciata fra le due pellicole - la cinefilia ammantata di citazionismo, la coppia di outsider che sognano di sfondare nel mondo dello spettacolo - fa da contraltare uno spirito radicalmente differente: se in La La Land Hollywood è sinonimo di dedizione, romanticismo, pura meraviglia che assume i toni sognanti di Vincente Minnelli e le tinte pastello di Jacques Demy, Babylon si apre sugli escrementi di un elefante nella torrida atmosfera del deserto californiano e prosegue con la forsennata sequenza di un party selvaggio che si prolunga fino al termine della notte. E se la Mia Dolan di Emma Stone, inquadrata sotto un poster di Ingrid Bergman, incarnava la delicata dolcezza dell'ingénue, la Nellie LaRoy di Margot Robbie è un concentrato esplosivo - e in costante movimento - di sensualità irrefrenabile e di malsana follia.
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The ones who dream: talenti in ascesa e stelle cadenti
"Non si diventa una star: o lo sei o non lo sei", dichiara la giovane con sicumera, mentre nel suo succinto abito rosso fuoco imprime un marchio sul cuore del Manny Torres di Diego Calva. Con una folgorante espressività catturata a più riprese mentre troneggia sul bancone di un posticcio saloon, Nellie non tarda a eclissare la star di turno, lanciandosi in quella parabola di ascesa e autodistruzione che è il paradigma hollywoodiano per antonomasia. Attorno a lei Damien Chazelle dipinge una girandola di comprimari memorabili, a partire dal Jack Conrad di Brad Pitt, quasi un'epitome del divismo dei Roaring Twenties: impassibile pur nel caos delirante del set, ammantato da un miracoloso raggio di luce nell'ultimo ciak della giornata. Ma Jack anela al progresso senza rendersi conto che lui stesso rimarrà stritolato fra i suoi ingranaggi: gli basta una telefonata per convincere Gloria Swanson ad affiancarlo in un nuovo film, ma intanto è avviato sullo stesso "viale del tramonto" di Norma Desmond.
L'amara ironia di Babylon, però, non preclude mai l'empatia di Chazelle per i suoi protagonisti. Jack, che tenta goffamente di cimentarsi nel sonoro, potrà essere messo in ridicolo come la Lina Lamont di Cantando sotto la pioggia, ma le risate del pubblico arrivano a lui - e a noi - come pugnalate. Così come avvertiamo la bruciante umiliazione del trombettista Sidney Palmer (Jovan Adepo) quando è costretto a tingersi la faccia perché non appare abbastanza nero; o il senso di sconfitta di Fay Zhu (Li Jun Li), cabarettista che con smaccato anacronismo omaggia l'ambiguo fascino della Marlene Dietrich di Marocco, con tanto di bacio saffico, ma sarà confinata alle parti da dragon lady prima dell'esilio definitivo da Hollywood. In una Babilonia in cui si mescolano etnie e lingue, Chazelle ci pone spesso nella prospettiva degli outsider: l'afroamericano Sidney, la cinese (e lesbica) Fay e ovviamente il messicano Manuel, alias Manny, che all'occorrenza si finge spagnolo mentre si muove con passo felpato ai margini dello studio system.
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Un grande film tra orrore e meraviglia
Dalle scene parallele di una frenetica giornata sul set al montaggio che, subito prima dei titoli di coda, ci trasporta dai fratelli Lumière fino al presente, la celebrazione del cinema non impedisce a Chazelle di metterne in mostra gli eccessi sfibranti, lo stakanovismo disumano, le ipocrisie moralistiche (l'ostracismo contro Nellie sembra alludere all'avvento del Codice Hays). E per chi è cresciuto amando l'iconografia della Hollywood classica, com'è possibile non farsi conquistare da un film così spavaldamente sovraccarico, abbacinante, onnicomprensivo? Un film che nell'arco di centottanta minuti, al ritmo sincopato delle musiche del fido Justin Hurwitz, vorrebbe raccontarci tutto e il contrario di tutto; che rievoca intere sequenze di Cantando sotto la pioggia, canzone del titolo inclusa, ma in seguito ci fa sprofondare - letteralmente - nelle viscere del jet-set losangelino, in quell'orripilante mondo sotterraneo in cui si materializzano creature mostruose e bestie fameliche.
Inserire una tale digressione, una catabasi che costringerà Manny a sondare gli abissi dell'abiezione umana, già basterebbe a dar prova del coraggio sconfinato di un film come Babylon, ma ancor più della sua vocazione al fallimento. Perché un'opera basata sui contrasti assoluti, in cui bellezza e disgusto convivono in egual misura, in cui ci si scaglia a spron battuto fra entusiasmo e disperazione, è destinata di per sé a dividere e abdica a qualunque ipotesi di plebiscito. È dunque una scommessa durissima, quella di Damien Chazelle, ma per la quale non potremmo essergli più grati: perché a prescindere dai riscontri immediati e dalle facili etichette, è proprio grazie a film del genere se il cinema rimane, dopo oltre un secolo, la più eccitante e la più ardita delle arti. E ben prima di quel finale, della limpida commozione che esplode nelle lacrime di Diego Calva, Babylon era già riuscito a ricordarcelo, così come a ricordarci il talento cristallino del suo autore.