Recensione Il Divo (2008)

Sorrentino imprime un ritmo indemoniato e sceglie la strada dell'eccesso senza compromessi, come a voler comunicare l'irrappresentabilità convenzionale di un uomo dai troppi misteri e dalle troppe sfaccettature.

Andreotti l'immortale

Vedendo Il divo, torna un po' in mente il Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, nonostante le evidenti differenze stilistiche tra i due film. Paolo Sorrentino, come Bellocchio, riesce infatti nel tentativo di raccontare un momento politico determinante del nostro paese e un personaggio così centrale come Giulio Andreotti, senza cadere nelle spersonalizzanti trappole del cinema politico civile, genere che ha fatto grande il cinema italiano nel passato ma che ha pagato duramente un cambio di generazione impietoso sotto il profilo della personalità degli autori. Una scommessa vinta, imponendo il suo cinema coraggioso e sfrontato, fatto di continue modulazioni, discontinuità di montaggio, impennate improvvise e accenti grotteschi, sottolineate da un utilizzo delle musiche che non ha equivalenti nel panorama italiano. Va da sé che qualcuno continui a storcere la bocca - specie certa critica francese e anche molta stampa nostrana - infastiditi da un narcisismo che è legittimo rintracciare nel cinema del regista italiano, ma che è supportato dai fatti e da una consapevolezza indiscutibile. In tal senso Sorrentino è davvero regista isolato nel nostro panorama, perché portatore di un'idea di cinema talmente forte da sfiorare l'incoscienza.

Incosciente è probabilmente il ritratto lunare e sopra le righe di un gruppo di potere, sintetizzato nella corrente andreottiana della democrazia cristiana, che viene raccontata con piglio grottesco, ma col dente avvelenato. E di Andreotti logicamente. Villain sublime che non sfigurerebbe in un noir, e che ha le fattezze di un Toni Servillo tornato ai livelli ragguardevoli di qualche anno fa. Sorrentino imprime un ritmo indemoniato e sceglie la strada dell'eccesso senza compromessi, come a voler comunicare l'irrappresentabilità convenzionale di un uomo dai troppi misteri e dalle troppe sfaccettature.
Ecco allora che i momenti giudiziari, il notevole lavoro di documentazione che sfocia nelle descrizione dei suoi uomini e della situazione politica e lo stesso guascone glossario di apertura - tutti elementi che esemplificano la dura esportabilità del film - segnano un forte contrasto con la caricatura aspra che ovunque fa capolinea ne Il divo, specie nella figura di Ciro Pomicino. Deformazioni che non sono mai strumenti di una volontà assolutoria, come in molta satira, ma al contrario strumento di una cattiveria politica dura e graffiante, lontana da un'espressione fine e calibrata. Forse è proprio attraverso tali eccessi che Il divo riesce a fornire un'immagine calzante di un momento storico in cui le anomalie politiche del nostro paese e le malignità amministrative e governative giunsero al loro punto di non ritorno, implose senza grazia e lanciate senza freni verso la loro (apparente?) distruzione.