Ezio Quantestorie
Se c'è una cosa che bisogna riconoscere a Gabriele Salvatores è la ferma volontà con cui, dopo essere stato inaspettatamente baciato dall'Oscar per Mediterraneo, abbia deciso di perseguire sempre la strada più difficoltosa, rifiutandosi di vivere di rendita e di adagiarsi nell'immagine preconfezionata di autore d'esportazione. Da questo punto di vista Salvatores è davvero "poco italiano" (per utilizzare un'espressione ormai entrata nel linguaggio comune grazie alla serie Boris) e non sorprende per nulla che il suo ultimo film sia stato acclamato dal pubblico di Los Angeles e che forse sarà addirittura oggetto di un remake statunitense. Nel corso della sua carriera cinematografica ormai più che ventennale, il regista si è cimentato con coraggio in progetti molto diversi tra loro, privilegiando spesso sentieri poco battuti dal nostro cinema, basti citare l'esperimento di fantascienza made in Italy rappresentato da Nirvana, opera ambiziosa, anticipatrice, poco compresa da critica e pubblico. Ondeggiando tra svariati generi, e soffermandosi nell'ultimo periodo soprattutto sul noir, Gabriele Salvatores ha sempre tentato di fondere (con esiti più o meno felici) una vocazione sperimentale (ereditata dai suoi trascorsi di regista teatrale) con l'attenzione per il mercato e i production values, riservando però sempre una cura particolare per l'elaborazione del linguaggio cinematografico.
Eppure, al di là dell'eclettismo formale e della discontinuità d'approccio con cui si presenta in apparenza la sua filmografia, il cinema del regista si fonda, fin dalle prime opere, su alcuni indiscutibili e costanti punti fermi. L'ossessione per la traduzione in immagini di un testo scritto (quasi tutti i suoi film sono tratti da romanzi o da commedie); la predilezione per uno stile antirealistico che lascia affiorare in primo piano le componenti della messa in scena; l'amore per i personaggi in fuga, sospesi tra più vite e tra più storie. E il suo ultimo lavoro, Happy Family, si inscrive appieno in questo percorso autoriale. Gabriele Salvatores torna, infatti, nuovamente alle origini teatrali della sua carriera, adattando per il cinema la commedia omonima di Alessandro Genovesi, messa in scena dal "suo" Teatro dell'Elfo. E lo fa con un testo meta-narrativo alla Pirandello, in cui a essere protagonisti sono personaggi in crisi d'identità persi in un universo di finzione. "Preferisco leggere o vedere un film piuttosto che vivere... nella vita non c'è una trama!", "Non si può fare il regista nella vita, la vita non ha regia", sono alcune frasi rivelatrici del cuore di Happy Family, che riflette su un tema già a lungo dibattuto in letteratura e a teatro: l'inestricabile intreccio di finzione e realtà che sta alla base del processo creativo. Proprio come in Sei personaggi in cerca d'autore, dei caratteri di finzione si ribellano al loro creatore, irrompono nel suo mondo ed esigono che le loro storie non vengano lasciate in sospeso. Ezio (Fabio De Luigi) è un soggettista cinematografico un po' svogliato e frustrato, al lavoro sulla commedia Happy Family. Inventa il racconto di due famiglie milanesi, una più elitaria (i cui genitori sono interpretati da Fabrizio Bentivoglio e Margherita Buy) e l'altra più ordinaria (impersonata da Carla Signoris e Diego Abatantuono). Due mondi sociali separati, che si scontrano perché i rispettivi figli più piccoli, Filippo e Marta, decidono improvvisamente di sposarsi. Sono due mondi separati anche quello di Ezio e dei personaggi che egli ha creato, ma finiscono anche loro per scontrarsi durante un bizzarro incidente in un'afosa giornata milanese. L'autore si ritrova così a cena con tutte le sue "creature", e si innamora persino della donna ideale che ha concepito interamente nella sua immaginazione, Caterina (Valeria Bilello). E se in Nirvana il protagonista di un videogioco, resosi conto di essere prigioniero di una simulazione virtuale, implorava il suo master of puppets di porre fine alla sua esistenza, in Happy Family al contrario i personaggi inventati da Ezio vogliono continuare a "vivere", e intimano lo scrittore di completare il loro arco narrativo. Si apre e si chiude con un sipario Happy Family, malgrado ciò la regia di Salvatores risulta la meno teatrale possibile. La messa in scena, anzi, valorizza in modo notevole proprio la dimensione ambientale in cui si svolge l'azione, finendo per tratteggiare in controluce anche un ritratto inconsueto della città di Milano. Il regista privilegia tutti i trucchi che servono a far risaltare il meccanismo di finzione della rappresentazione cinematografica, a partire dal fatto che ogni personaggio si rivolge direttamente allo spettatore guardando di fronte la macchina da presa e rompendo così l'illusione della "quarta parete". Ma ogni dettaglio di fotografia, scenografia e costumi è congegnato per risultare stilizzato e innaturale, giocando sulla predominanza cromatica di colori primari (rosso, verde, blu, bianco e nero). La struttura narrativa si disperde in mille rivoli, scomponendosi in maniera ipertrofica e generando un'esplosione di micro-racconti, inserti, divagazioni oniriche e flashback. Questa ricercata confezione formale non rovina però il godimento da parte dello spettatore, che può semplicemente fruire il film come se fosse una classica commedia romantica, ricca di momenti umoristici, e valorizzata da un cast particolarmente ispirato e affiatato. Happy Family si rivela dunque un esercizio di stile di certo riuscito, cui si può solo rimproverare il fatto di essere eccessivamente derivato da modelli estetici di altri (soprattutto del cinema di Wes Anderson, con un riferimento particolare a I Tenenbaum).