All That Music
Adattare o non adattare? Questo è il problema. Non ci sono dubbi sul fatto che alcune opere del passato e certi generi cinematografici potrebbero essere rinnovati e rivisitati attraverso i remake (anche se il termine è tecnicamente inesatto) che riuscirebbero a trarre giovamento dall'utilizzo di tecnologie migliori e a godere della linfa rinvigorente instillata da uno sguardo contemporaneo e da un'iperattività progressista. Ma quando l'opera originaria passa attraverso più di un imbuto, il rischio è che il prodotto ottenuto - seppur realizzato in maniera accattivante - risulti più distante di quanto si sarebbe immaginato dalle intenzioni dell'idea originaria. Se poi alle origini c'è un nome altisonante come quello dell'autore più visionario e onirico della storia del Cinema Italiano, Federico Fellini, la "trasmigrazione" dell'opera diventa un processo di traduzione visiva eterogenea che cerca un suo spazio autonomo negli interstizi della cinematografia contemporanea. A questa rielaborazione filmica si frappone inoltre un ulteriore livello di rimediazione, come inteso autenticamente da Mc Luhan, che è quello del teatro di Broadway, ricordata fin dai delicati rintocchi dell'incipit. È solo tenendo ben presenti queste basi semiologiche - il musical è il segno di uno spettacolo, che è il segno di un film - che si evita di considerare Nine in un'ottica esclusivamente comparativa con il capolavoro felliniano Otto e mezzo.
Il Premio Oscar per l'indimenticato Chicago, su cui gli arguti fratelli Weinstein hanno erroneamente provato a fare leva per la campagna promozionale (con il grido da strillone "If you liked Chicago you'll love Nine"), Rob Marshall porta sul grande schermo quello che definisce, con slancio tanto ruffiano quanto rispettoso, il proprio omaggio a Fellini, ma, nel suo tentativo coraggioso, ambizioso e anche demagogico, finisce per onorare più il musical hollywoodiano che il genio di Rimini. Spostando, forse inconsciamente, la traiettoria del suo obiettivo, Marshall non lega il suo ultimo film a quello italiano con una connessione vischiosa e rischiosa, ma lo annoda prima ancora allo show omonimo che calca con enorme successo le scene dei teatri americani dagli anni '80.La parabola narrativa viene mantenuta quasi intatta pur accentuando i vezzi e i vizi del protagonista, Guido Contini, regista sull'orlo di una crisi creativa con il produttore sul collo e un film in preparazione, e le debolezze e le virtù del parterre di donne che lo circondano e che abitano numerose i suoi sogni, le sue visioni e le sue evasioni a occhi aperti. Calcando la mano sui suoi personaggi, le cui psicologie però non affiorano in maniera così lampante da alcuni degli attori, come per la mamma interpretata da una Sophia Loren più diva che attrice, la sceneggiatura di Michael Tolkin e del commemorato Anthony Minghella soccombe all'immagine, alla musica e ai difetti tecnici della regia. Il soggetto di Fellini e Flaiano arretra sotto il colpo frenetico del musical elettrico con i suoi numerosissimi siparietti musicali, che interrompono lo sviluppo narrativo piuttosto che accompagnarlo o integrarlo, com'era invece perfettamente riuscito in Chicago.
Il problema principale di Nine è la mancata commistione tra plot, brani musicali e coreografie, tra recitazione e tecnica: le cantatine e i balletti, davvero poco consistenti e talvolta fin troppo leggeri, frenano i dialoghi e l'azione anziché costituirne uno spettacolare prolungamento, come insegnano i film della migliore tradizione musicale, e ne diventano surrogati immotivati che intervallano geometricamente la storia del protagonista. Si ha l'impressione che i numeri musicali siano utilizzati come banchi di prova per gli attori, ineccepibili stelle del firmamento internazionale, piuttosto che come un flusso perfettamente integrato con il melodramma dipanato davanti allo sguardo dello spettatore: in questo modo la storia dell'esasperato Guido, qui più nevrastenico che depresso con tutti quei tic e quelle mossette opinabili, dotata di pathos ma anche d'ironia e di vis polemica (si pensi al rapporto con il clero) slitta e abbassa i toni rischiando di annoiare il pubblico. A fare eccezione due strepitosi brani della colonna sonora, quelli caratterizzati da un ritmo travolgente ed energico ed eseguiti con sbalorditiva verve in performance sorprendenti, che ci permettono di mettere da parte per pochi momenti la nostalgia dell'insuperabile e melodica musica di Nino Rota: "Be Italian", che permette a Stacy Ferguson, cantante dei Black Eyed Peas, qui nei panni di Saraghina, una corpulenta e conturbante vamp marina, di esibirsi in un numero d'effetto e di grande suggestione e "Folies Bergere" interpretata dalla magistrale signora Judi Dench, alias grillo parlante Lillie, alla quale, probabilmente non a caso, viene affidata la battuta "L'amore non è amore senza canto". Il cast (e il budget) galattico di Nine ammicca al grande pubblico mentre indossa costumi sfavillanti, balla e canta sullo sfondo di un fondale maestoso che rappresenta il Colosseo e ci accompagna per le strade romane della Dolce Vita, tra colori più spagnoleggianti che italiani, tra lo stile glamour ed esuberante degli anni '60 e le tinte calde della città eterna che fu contesa da paparazzi voraci, produttori irrompenti negli studi di Cinecittà, stilisti audaci, alfa siluriche e vespe bianche, rayban scuri e talari nere. Ma la celebrità attoriale finisce per reprimere e appiattire le personalità dei personaggi interpretati, complici colpose anche le riprese di Marshall, che sembrano spesso inarcarsi nelle interruzioni brusche e nelle cesure poco logiche tra un gesto e una battuta. Così sottraggono l'intensità visiva al talentuoso Daniel Day-Lewis, che non risulta particolarmente a suo agio nei momenti musicali durante i quali confessa i pensieri e le fantasie di Guido, e alla statuaria musa-Nicole Kidman che, sotto i riflettori e nelle angolazioni da book fotografico, sembra assai lontana dalla clamorosa performance nel musical Moulin Rouge. Esaltano nelle loro interpretazioni e nei loro simmetrici profili di prima donna la femme fatale Penelope Cruz, che si cala alla perfezione nel ruolo dell'ingenua Carla, a metà tra seduttrice corredata di pizzi e guêpière ultrasexy e amante inquieta dotata di romantici slanci emotivi, e l'adorabile Marion Cotillard, nel ruolo dell'indulgente Luisa Contini, moglie fragile che ama un uomo con troppe donne nella testa e un regista con nessuna idea per un film. Il duo artistico si confronta a ritmo di burlesque infiammabile e melodramma familiare in un duello combattuto fino all'ultimo sguardo per emozionare i più sensibili a un amour fou complicato e tragico.