There's a place for us, somewhere a place for us/ Peace and quiet and open air wait for us somewhere
La scena d'apertura del West Side Story del 1961, dopo i titoli di testa disegnati da Saul ed Elaine Bass, consiste in una ripresa a volo d'uccello di New York che si muove in orizzontale al di sopra dei grattacieli di Manhattan; subito dopo, il primo scontro fra i Jets di Riff e gli Sharks di Bernardo si consuma fra le strade e gli edifici dell'Upper West Side, fino all'arrivo delle forze dell'ordine. Basterebbe quest'incipit, contestualizzato nell'ottica del cinema dell'epoca, a offrirci un saggio della portata rivoluzionaria del film diretto da Robert Wise e Jerome Robbins, prima trasposizione sul grande schermo dell'omonimo musical teatrale realizzato e coreografato nel 1957 da Robbins su libretto di Arthur Laurents, musiche di Leonard Bernstein e versi di Stephen Sondheim, ispirandosi a Romeo e Giulietta di William Shakespeare.
1961: un nuovo musical è possibile
Gli anni Cinquanta, ancor più del decennio precedente, avevano segnato l'apogeo del musical classico hollywoodiano: da Un americano a Parigi a Cantando sotto la pioggia, da Sette spose per sette fratelli a Il Re ed io, fino a culminare con Gigi, punto d'arrivo del musical inteso come supremo artificio, fantasia onirica e fiabesca, celebrazione di un romanticismo fuori dal tempo. In pochissimi casi qualcuno aveva tentato di incrinare questa formula ormai cristallizzata; l'eccezione più illustre risaliva probabilmente alla versione di È nata una stella diretta nel 1954 da George Cukor, in cui i numeri musicali erano inseriti con maggior naturalezza nella linearità diegetica (la protagonista Judy Garland interpretava infatti un'attrice e cantante) o, talvolta, erano 'semplici' performance prive di un corredo magniloquente (si ricordi l'unico long take su cui è costruita la splendida The Man That Got Away).
Quando dunque, nell'ottobre 1961, West Side Story debutta nelle sale statunitensi, appare subito evidente che qualcosa sta cambiando nel modo di concepire il genere musicale. A partire, appunto, da quella scena iniziale: quanto di più lontano dai set coloratissimi in cui, dieci anni prima, Vincente Minnelli faceva danzare Gene Kelly e Leslie Caron in una Parigi sognante e volutamente posticcia. E non è finita qui: in West Side Story, l'incontro fra il Tony di Richard Beymer e la Maria di Natalie Wood avviene nel grande spazio spoglio di una palestra; America viene cantata e ballata sul tetto di un palazzo, mentre I Feel Pretty nello spazio angusto di una sartoria; il tragico finale non è sublimato da un ultimo, strabiliante numero di chiusura, a mo' di catarsi, ma viene lasciato all'invettiva carica di rabbia e di risentimento di Maria. In altre parole, West Side Story cominciava a fare a pezzi buona parte dei canoni del musical classico, indicando una nuova direzione al proprio genere d'appartenenza.
West Side Story, la recensione: come aggiornare un classico
West Side Story ieri e oggi: da Robert Wise a Steven Spielberg
Ma la rivoluzione di West Side Story, consacrata dagli incassi record e dalla vittoria di dieci premi Oscar, non consisteva soltanto negli ambienti urbani e quotidiani adoperati come scenografie, né nella rinuncia alla grandiosità e all'opulenza tipiche dei film di Minnelli e soci. La sua rivisitazione del modello di Romeo e Giulietta era calata in una realtà culturale ben precisa, vale a dire un melting pot attraversato da tensioni etniche (gli Sharks sono immigrati portoricani, Tony/Anton ha origini polacche) e dagli impulsi trasgressivi delle nuove generazioni. Sei anni prima i teenager americani avevano eletto a loro idolo il James Dean di Gioventù bruciata di Nicholas Ray, e la delinquenza minorile era considerata una delle emergenze con cui gli Stati Uniti dell'età di Dwight Eisenhower avevano imparato a fare i conti. In questa prospettiva vale la pena ricordare che, subito prima di West Side Story, il prolifico Robert Wise aveva diretto film di profonda rilevanza sociale quali Non voglio morire, sull'ambiente carcerario e la pena di morte, e Strategia di una rapina, sul razzismo contro gli afroamericani.
A sessant'anni di distanza, e in una fase storica in cui il musical (con rare eccezioni) non è di certo annoverato fra i generi più popolari presso il pubblico di massa, il West Side Story di Steven Spielberg non si limita a rendere omaggio al capolavoro di Wise e Robbins, né a far leva sull'effetto-nostalgia. Spielberg e il suo sceneggiatore di fiducia, Tony Kushner (Munich, Lincoln e ovviamente Angels in America), si mantengono fedeli all'impianto dell'opera di Laurents, Bernstein e Sondheim, ma ne evidenziano quanto più possibile gli elementi di realismo e di modernità: ad esempio rendendo esplicita la violenza fra i Jets e gli Sharks; trasformando le vivaci coreografie di Jerome Robbins in un forsennato corpo a corpo fra i due gruppi; mettendo in scena Cool come un frenetico rincorrersi fra Tony e Riff (Mike Faist) per impossessarsi della pistola; sostituendo all'eleganza 'teatrale' di Wise e Robbins un senso di adrenalina che esplode nella sequenza della rissa fra le due gang.
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A place for us: una speranza di pace
Ciò non significa strizzar l'occhio a tutti i costi all'America del 2021, ma porre l'accento su quei caratteri che, già sessant'anni prima, avevano reso West Side Story un film in anticipo sui tempi, in grado di intercettare la sensibilità di giovani e giovanissimi, prima ancora che degli spettatori adulti, e di offrire spazio a volti e voci fino ad allora ignorati a Hollywood, in primis quelli della comunità portoricana. Nel 1961, la rappresentazione di tale minoranza era viziata da una serie di limiti endemici all'industria, ma pure dalla mentalità di quegli anni: gli Sharks erano assimilati pertanto alla categoria di un'indistinta 'diversità', in cui l'autentica portoricana Rita Moreno recitava al fianco di George Chakiris, figlio di immigrati greci, e di Natalie Wood, figlia di immigrati russi. Nel film di Spielberg, l'appartenenza etnica di Maria, Bernando e Anita acquista un peso assai maggiore: dal frequente uso della lingua spagnola (priva di sottotitoli per volontà del regista) ai richiami diretti a Porto Rico, con tanto di immagine della bandiera su un muro del campo degli Sharks.
Perfino le interazioni fra il Tony di Ansel Elgort e la Maria di Rachel Zegler ora necessitano della "mediazione culturale" di Valentina, personaggio creato ex novo da Tony Kushner per la veterana Rita Moreno. A Valentina, che fornisce a Tony lezioni di spagnolo per permettergli di esprimere i suoi sentimenti a Maria, è affidata inoltre la canzone più famosa del musical, Somewhere. Nella trasposizione del 1961, Somewhere era eseguita come un duetto fra Tony e Maria nel momento in cui il loro amore era messo a repentaglio dalle circostanze; quel vagheggiato "a place for us" corrispondeva dunque alla speranza dei due amanti di superare gli ostacoli che li stavano separando. Nella versione di Steven Spielberg, e nella voce fragile e commossa di Rita Moreno, Somewhere assume un valore differente: l'auspicio di lasciarsi alle spalle l'odio razziale, di trovare il proprio posto nel mondo e di imparare la via del perdono... "We'll find a new way of living/ We'll find a way of forgiving".
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