Voice of Fire, la recensione: il maxi coro gospel di Pharrell Williams

La recensione di Voices of Fire, a metà strada tra docuserie e talent show su Netflix dal 20 novembre, prodotta e in parte interpretata dal noto cantautore e produttore discografico.

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Voices of Fire: una scena della serie Netflix

"I Made It" diceva Rachel Berry in Glee, una arrivata a Times Square a New York, quando sentiva di aver fatto il primo grande passo per realizzare il proprio sogno artistico di cantante a Broadway. Come cercheremo di spiegare nella recensione di Voices of Fire, è più o meno questa la sensazione che vorrebbe esprimere e far provare agli spettatori la nuova serie a metà fra il documentario e il talent show in arrivo su Netflix il 20 novembre. Prodotta - e in parte interpretata - da Pharrell Williams, musicista e produttore discografico di fama mondiale, la storia prende il via quando il pastore Ezekiel Williams, zio di Pharrell, ha la bizzarra idea di provare a creare un coro gospel inclusivo, fatto di tante e più voci, non solo black, di tutte le età e tutte le etnie, che si fondano insieme in un super concerto di debutto, a partire dalla città natale del nipote, Hampton Roads, Virginia.

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Voices of Fire: un momento della serie Netflix

Per portare a termine questa "missione" che si è prefissato, il pastore Williams ha bisogno di alcuni giudici che lo aiutino a scegliere il meglio del meglio e a lavorarlo in modo che sia pronto per il grande debutto. In suo "soccorso canoro" arrivano il direttore musicale Larry George, la leggenda locale e vocal coach Peggy Britt e il "principe dei cori" Patrick Riddick. Ognuno con una propria personalità ma sono tutti unanimi nell'affrontare con passione, dedizione e pragmatismo il processo creativo di quest'esperienza, documentata passo dopo passo nella serie Netflix. Come ogni reality musicale che si rispetti, la serie segue le tipiche fasi della ricerca del talento: le audizioni, le selezioni finali e la preparazione per il concerto che presenterà al mondo le Voices of Fire - il tutto in non così tanto tempo, in modo da accrescere la tensione per la buona riuscita del concerto. Le audizioni si tengono in 3 tornate, con ben 3000 partecipanti, che verranno scremati e ridotti a 75 selezionati - in modo da avere 25 cantanti per ogni categoria del coro, soprani, contralti e tenori - perché non ci saranno i cosiddetti "call back", le seconde audizioni. Ci vorrà proprio il Pitch Perfect dell'omonima trilogia filmica per i giudici in modo da riuscire a scovare i talenti veri e particolari tra la miriade di voci ascoltate. Non si vive però di sola tecnica perfetta, anzi elemento centrale è il sentimento che queste voci suscitano, nei giudici e quindi nei possibili spettatori, ciò che infondono nel prossimo, poiché visto come "dono e messaggio di Dio".

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AVVICINARSI A DIO

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Voices of Fire: Danlie Cuenca e Peggy Britt nella serie Netflix

L'altro elemento utilizzato per la selezione è quello infatti delle testimonianze che gli aspiranti membri del coro possono portare come prova di Dio fra gli uomini. La religione è un aspetto estremamente presente, potremmo dire fondamentale, in questa docuserie, data anche l'insita vicinanza al genere di musica affrontato. Si riflette, nei racconti documentati dei partecipanti, sulla presa in giro subita dai "ragazzi del coro" da giovani, sul sentirsi degli outsider per gli aspiranti artisti come da copione, e sulle storie spesso ai margini di alcuni dei candidati. Queste ultime però hanno spesso la meglio sull'elemento propriamente artistico e musicale, che avrebbe reso più accattivanti le storie.

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Voices of Fire: Pharrell Williams in una scena della serie Netflix

C'è la ragazza giovanissima che nonostante non abbia l'udito da un orecchio canta con una perfetta intonazione. C'è il ragazzo che in seguito a un incidente non avrebbe più dovuto camminare in vita sua e ora sta in piedi e esprime tutta la propria determinazione attraverso la voce. C'è l'ex star musicale che dalla fama è passato all'essere un signor nessuno, e ora vorrebbe riavvicinarsi alla seconda arte attraverso la musica gospel, più intima nonostante i toni. C'è invece chi ha perso l'occasione di diventare famoso e ora vorrebbe far sentire la propria voce, letteralmente, e chi soffre di "ansia sociale" eppure il canto, soprattutto quello gospel, potrebbe aiutare a superare questa paura. Sono presenti nella serie insomma tutte le storie del caso che potremmo chiamare "strappalacrime", che spesso però pur intrattenendo e toccando corde delicate, non riescono a fare totalmente breccia nello spettatore perché è come se la religione sovrastasse la musica, facendole perdere le qualità di "sogno nel cassetto" che tante volte ha avuto nella storia del cinema e della tv.

Conclusioni

Concludiamo la recensione di Voices of Fire lodando l’intento di far avvicinare gli spettatori “onnivori” di Netflix a un genere musicale poco conosciuto e affrontato come quello gospel. Purtroppo però l’elemento religioso, pur se biologicamente e inevitabilmente legato a quello del sottogenere ecclesiastico, rischia di oscurare quello musicale, quello “puro” di scoperta del proprio talento e del potere della musica. Il risultato è una docuserie che sembra a tratti troppo costruita per arrivare al cuore, non sempre almeno.

Movieplayer.it
2.5/5
Voto medio
5.0/5

Perché ci piace

  • L’affrontare un genere poco gettonato come quello della musica gospel.
  • Il talento effettivo visto tra audizioni e selezioni finali e la simpatia dei giudici.
  • La durata (sono solo 6 episodi da 40-45 minuti) che quindi può attirare anche i meno inclini al genere.

Cosa non va

  • L’elemento religioso, pur se insito nel gospel, delle testimonianze rischia di oscurare la parte prettamente musicale.
  • La docuserie in generale forse doveva fare uno sforzo in più tra scrittura e regia per rendere più accattivante l’argomento e incuriosire i papabili spettatori.