Recensione Black Hawk Down (2001)

Il grande talento visivo di Ridley Scott al servizio di una triste e recente storia di guerra. Azzerata la retorica, Scott spinge sul pedale dell'azione e del realismo.

Una guerra moderna

Nel 1993 gli Stati Uniti intervennero militarmente in Somalia con l'intento dichiarato di alleviare la popolazione dal regime d'oppressione praticato dal generale Aidid. Una missione, in particolare, prevedeva la cattura, nel cuore di Mogadiscio, di due luogotenenti del famigerato "signore della guerra". Concepita come un intervento-lampo, l'operazione avrebbe dovuto risolversi in trenta minuti. Ma le cose andarono diversamente: due elicotteri americani furono abbattuti, la situazione degenerò e diciannove soldati americani e centinaia di guerriglieri somali persero la vita in quello che già viene ricordato come uno degli episodi più neri della recente storia militare americana.
Black hawk down, fedele trasposizione dell'omonimo best seller di Mark Bowden, porta sul grande schermo proprio quella vicenda. Contando su un budget sostanzioso e su uno spiegamento di mezzi impressionante, Black hawk down è, tanto vale precisarlo subito, un trionfo di tecnica cinematografica. Regia, montaggio e fotografia si attestano su livelli di assoluta eccellenza e, infatti, hanno trovato conferma in altrettante candidature agli Oscar (alle quali, per dovere di cronaca, bisogna aggiungere quella per il miglior sonoro). Da un film di Ridley Scott, peraltro, non ci si aspetta certo un impatto visivo meno che magnifico. Ma Black Hawk Down è un film importante anche per altri motivi. Di questa pellicola, infatti, non colpisce solo la miliardaria e fenomenale realizzazione tecnica, e persino coloro che non apprezzano (più) il regista di Alien e Blade runner saranno costretti a riconoscerne i meriti.
Il pregio fondamentale di questo film sta nel suo darsi come differenza rispetto alla tradizione del genere. Black hawk down, infatti, è nuovo pur senza pretendere di apparire innovativo. Ci sono gli elicotteri, ad esempio, come in Apocalypse now. Ma mentre nel film di Coppola gli elicotteri caricavano sulle roboanti note di Wagner, qui , invece, arrivano in silenzio, in un'atmosfera spettrale, oggetti di morte e distruzione stagliati contro un mare magnifico, azzurro e indifferente. Ancora, in Black hawk down c'è il realismo quasi delirante della messa in scena, proprio come in Salvate il soldato Ryan. Ma mancano l'afflato patriottico, lo spessore psicologico e i dilemmi morali che caratterizzavano il film di Spielberg.
Scott, insomma, vuole dirci che la situazione è molto cambiata rispetto al passato e lo fa con l'arma a lui più congeniale: le immagini. La guerra messa in scena in Black Hawk Down è notevolmente diversa da quelle che abbiamo visto al cinema fino ad ora, è una guerra moderna. Ad esempio, nel film di Scott non ci sono personaggi principali, né eroi. E non, si badi, perché questo sia un film "corale" ma, più semplicemente, perché la vera star della pellicola è proprio la Guerra, la terribile battaglia che doveva durare mezz'ora ma che, oltre le peggiori previsioni, si trascinò per un giorno intero, mietendo vittime a centinaia. I soldati, invece, sono quasi indistinguibili l'uno dall'altro, non c'è un personaggio che assurga al rango di protagonista e anche se ciascuno di loro è caratterizzato in un modo particolare, questi tentativi di descrizione svaniscono di fronte all'oggettiva difficoltà, per lo spettatore, di riconoscere Ewan McGregor o Josh Hartnett nel tripudio di esplosioni, sangue e distruzione messo in scena da Scott, mentre l'azione, anche per lo spettatore, si fa estenuante, eccessiva, infinita.Naturalmente questa confusione, alimentata dal martellamento visivo e dall'assenza di personaggi "principali", è voluta e sapientemente costruita. Ingaggiare un attore di fama come McGregor, raparlo a zero e poi farlo scomparire nella furia della battaglia è un'intuizione geniale. La "spersonalizzazione" della guerra (moderna) sta tutta in questa felice intuizione. I soldati, in Black hawk down, sono solo le estreme propaggini di un Potere invisibile e remoto, combattono un conflitto che non gli appartiene e del quale non conoscono le motivazioni, respirano la polvere di Paesi nei quali, dalla notte dei tempi, la guerr(igli)a è diventata una questione d'identità culturale.
Ma c'è dell'altro. La "modernità" di Black hawk down risiede anche, e soprattutto, nella sua capacità di mettere in scena una guerra "tecnologica", una guerra, vale a dire, diffusa in tutto il mondo grazie alla televisione e ad Internet e condotta attraverso i satelliti spia, le radio, i visori notturni ad infrarossi e gli emettitori gamma che permettono, anche al buio, di evidenziare gli obiettivi da colpire. La tecnologia, insomma, aumenta le possibilità di vedere, di percepire di più e meglio, amplificando la resa (cinematografica?) della battaglia. Ma tutto questo progresso tecnico non ha nulla a che vedere con l'esigenza di limitare lo spargimento di sangue. Anche da questo punto di vista, il mondo occidentale ha fallito. Perché la scienza e la tecnologia applicate alla guerra cambiano il modo di ideare, condurre e seguire (a distanza) un conflitto ma non possono evitare i massacri, tutt'altro. Perché le nuove armi NON sono più precise e selettive. Sono, questo sì, più potenti, producono un danno maggiore. Ridley Scott, insomma, evita ogni retorica (non ingannino i 15 minuti finali) e porta avanti un discorso molto duro non solo nei confronti dei guerriglieri somali (fanatici, disperati, affamati) e, più in generale, di tutti quei Paesi che (forse) non desiderano essere aiutati, ma anche nei confronti degli americani, con le loro gerarchie del potere e la loro arroganza. I soldati, poi, spesso sono giovani, inesperti e chiassosi, laddove, al contrario, servirebbero freddezza, preparazione e precisione chirurgica. Gli Stati Uniti, insomma, non sono affatto infallibili, forti e invulnerabili come credevamo, il mondo intero ormai ne è consapevole e i drammatici fatti recenti non fanno che confermare questa convinzione.
Ma c'è un altro aspetto del film che colpisce: il suo essere, irrimediabilmente, un film "al maschile". E questo, da parte di un regista che ha sempre dedicato una grande attenzione ai personaggi femminili (da Alien a Blade runner, da Thelma & Louise a Soldato Jane), suona alquanto strano. Ma, in fondo, è pur vero che sono sempre gli uomini a fare le guerre, perché sono i "maschi" a detenere il Potere, a sedere sulle poltrone che contano. Le donne, evidentemente, hanno il compito, altrettanto nobile, di mettere al mondo i soldati che andranno a rimpiazzare i caduti.
Perché quei bambini che, in una delle immagini più significative di Black hawk down, giocano attorno ai resti dell'elicottero abbattuto sono, senza saperlo, già morti, fantasmi inconsapevoli di un mondo violento, un mondo impegnato in guerre senza eroi.
E senza vincitori.