Recensione Reazione a catena (1971)

Ritmo, qualità della messa in scena, padronanza tecnica, direzione degli attori, humor nero e continue trovate geniali fanno di 'Reazione a catena' un film memorabile. Qui si ri-inventa l'horror, lo si estremizza con gli eccellenti effetti gore, lo si spinge verso l'avanguardia.

Un horror in anticipo sui tempi

Siamo nel 1970, il mai tanto sottovalutato regista sanremese Mario Bava, dopo aver di fatto inventato il cinema di genere in Italia ed aver forse inconsapevolmente compreso troppo in anticipo la vera natura della dialettica produzione-consumo, dopo varie incursioni anche nella fantascienza e in altri generi inesplorati dal cinema italiano, dopo aver girato horror come La maschera del demonio, I tre volti della paura, Operazione paura e 5 bambole per la luna d'agosto, decide che il suo cinema è arretrato. Soluzione: dirigere e fotografare un film estremo, violento, ricco di effetti crudi e suggestivi. Filmare un'ecologia del delitto impietosa con al centro l'omicidio come arte della rappresentazione e gli essere umani come inutili contorni; un film ineccepibile formalmente (per quanto lo stesso Bava ne sia poco convinto, troppo impegnato a denigrare la sua filmografia) e dominato da un'ironia macabra difficilmente rievocabile.

La trama è alquanto inutile ai fini della pellicola: il pretesto per la serie di assassini (quasi pedissequamente ripresi dal fortunato Venerdì 13) è l'avidità umana scatenata dalla volontà di ereditare gli averi terreni dell'anziana contessa Donati, morta in circostanze decisamente dolose. La sua residenza nella baia diverrà presto teatro di una catena di delitti tanto malvagi, quanto visivamente complessi ed accattivanti. Formalmente infatti, il film è dominato dagli effetti antitetici dello zoom e del fuori fuoco, da cambi focali straordinari e da un'eccellente profondità di campo aiutata da un sapiente uso del grandangolo e dei colori natuali (dominanza dei tramonti e delle atmosfere crepuscolari). Di notevole livello anche le recitazioni, assolutamente sopra lo standard del genere: sarà l'ottimo rapporto che il cast instaurò con Bava, fatto sta che la credibilità degli interpreti e l'intensità dei loro atti omicidi è massima. Altro elemento di rilievo sta nell'uso assolutamente decontestualizzato delle musiche. Il regista italiano sceglie spesso di contrastare la forza delle immagini con musiche dolci e rassicuranti, invece che di assecondarla, anticipando una pratica che con il cinema di Quentin Tarantino ha raggiunto il suo massimo livello espressivo. Il melodioso tema di piano ed archi che accompagna l'esecuzione degli ultimi due delitti provoca un bizzarro senso di straniamento che è la perfetta rappresentazione della sottovalutata ironia di Bava; un'ironia corrosiva che troverà il definitivo acuto nell'incredibile finale, perfetto corollario del disincanto del regista rispetto alla materia narrata.

Tutto questo ci permette di riaffermare la qualità assoluta del lavoro di Bava ben oltre il metro usuale della sua ri-valutazione che punta sempre sulla sua capacità di arrabattarsi con pochi mezzi portando in dote la sua creatività e la massimizzazione dei mezzi a disposizione. Questa capacità, seppur reale, lo sminuisce enormemente, affiancandolo a registi di calibro decisamente inferiore quali Margheriti e Fulci. Bava è più di un grande artigiano del cinema: è un maestro della ripresa e della fotografia, un anticipatore con eccellenti idee anche sotto l'aspetto della narrazione (basti pensare alla genialità con cui si confronta con un plot come quello di Cani arrabbiati). Il suo cinema ha meriti superiori a quelli dell'ingente saccheggio-tributo generato dal suo cinema (da Ridley Scott a Dario Argento, da Quentin Tarantino a Tim Burton, per non citare tutti i registi horror più o meno rilevanti); è dotato di una sua forza specifica che va oltre delle ottime trovate registiche ed affonda in un voyeurismo e una morbosità assolutamente inusuale nel panorama dei suoi tempi.

Modesto ed autoironico all'eccesso, lui stesso si è sempre dimostrato incapace di comprendere la qualità del suo cinema, il suo respiro, la sua visionarietà; in una parola la sua godibilità. Se così non fosse la fruizione del suo cinema saprebbe di mera ri-visitazione cinefila; in altre parole sarebbe pervasa dalla usuale freddezza tipica dell'ideologia della sopravvalutazione postuma a tutti i costi. Il suo cinema, invece, almeno il migliore, avvince e affascina lo spettatore, ci libera dalle formule estetico-ermenuetiche e permette di essere goduto a pieno, senza doverci appellare al ricatto morale di trovarci a vedere qualcosa che ci appare di importanza fondamentale più per motivi elucubrativi che sostanziali.