Recensione Rapina a mano armata (1956)

The Killing narra dell'eterna storia dell'uomo e di quell'ironia che si chiama vita. Ovvero: dell'uomo che, per ironia, qual siano i suoi progetti e i suoi sogni, e di conseguenza il suo agire, finisce sempre col ritrovarsi di fronte all'imprevisto.

Tutto il cinema (e la vita) dentro un noir

Rapina a mano armata, terzo lungometraggio di Stanley Kubrick, girato e montato tra il '55 e il '56, si giova, in modo evidente, delle maniacali e scaltre competenze del giovane regista, allora ventottenne. Kubrick, infatti, per entrare in modo definitivo e consacrato nell'universo di chi il Cinema lo fa - e volendo, al contempo, marcare la propria presenza con il segno d'una libertà già matura e consapevole, compie, in The Killing (il titolo originale dell'opera), una serie di scelte in apparenza tortuose ma, infine, del tutto funzionali al progetto.

Innanzitutto, produce il film in modo quasi indipendente, grazie al contributo di James B. Harris, che anticipa una piccola somma, per un'opera che, alla fine, tra collette familiari, il denaro di Harris e l'intervento - sulla fiducia - della United Artists, verrà a costare non più di 350 mila dollari, molto al di sotto dello standard minimo hollywoodiano. Un prodotto fatto in casa, insomma, eppure in qualche modo legato al mondo delle majors, nell'ottica d'una strategia produttivo-commerciale che sarà tipica del primo Kubrick, almeno fino a Lolita (il caso di Spartacus è a parte): autofinanziare con Harris, per mantenere il più possibile di libertà e controllo in fase creativa, produttiva e post-produttiva, ma farsi aiutare, in modo più o meno leggero, da una grande casa produttrice che, avendo investito denaro, si incaricherà, poi, di trovare i giusti canali distributivi. Strategia che si mostrerà ben riuscita, se persino il new cinema americano degli anni Sessanta e Settanta - la cui parola d'ordine sarà: assoluta indipendenza - assai spesso la adotterà, per garantirsi, al contempo, libertà di fare e capacità di avere mercato.

In secondo luogo, Kubrick prova a entrare nel cinema adulto, quello delle opere d'arte che fanno parlare di sé sulle pagine culturali dei quotidiani statunitensi, adottando - strategicamente - il genere che, in quegli anni, assieme al western, va per la maggiore, e cioè il noir. Così, la scelta del romanzo da cui trarre il film - Clean Breakdi Lionel White, noir tra i più letti dall'inizio degli anni Cinquanta - e quella del collaboratore alla sceneggiatura - Jim Thompson, che è, in quel momento, tra i più apprezzati scrittori di genere -, rispondono, in tutta evidenza, alla necessità di lavorare in profondità proprio sulle strutture e sulle dinamiche del noir, accettandone, in prima istanza, alcune costanti indispensabili per poi - come vedremo più tardi - lavorarci sopra, al fine di trascendere e oltrepassare i limiti naturaliter circoscritti del genere. Ma, se - almeno di base - noir deve essere, ecco allora che attore protagonista del film sarà Sterling Hayden, già interprete principale di una tra le pellicole che, a inizio decennio, avevano definitivamente ribadito il codice, Giungla d'asfalto di John Huston; ed ecco, ancora, la massiccia presenza di altri attori quasi soltanto noir, tipo l'Elisha Cook de Il mistero del falco, sempre di Huston, e de Il grande sonno di Howard Hawks, la Coleen Gray de Il bacio della morte di Henry Hathaway o, anche, il Ted De Corsia che, in quegli anni, era ormai specializzato/ingabbiato nel disegno di decine di violenti e irriducibili gangster. Si badi, poi, all'intreccio: si racconta, nel dettaglio, la preparazione minuziosa d'una rapina ai danni di un ippodromo - il sogno d'emancipazione d'una banda di criminali -, di seguito l'impresa che l'attualizza e, infine, l'azione, oltremodo violenta, che ne comprometterà l'esito - la disillusione che, nel noir, è, sempre, e più che in qualsiasi altro genere, l'epilogo amaro d'ogni speranza umana coltivata nell'illegalità. A rendere carne le funzioni dell'intreccio, non possono mancare personaggi ben disegnati, messi in rilievo dalla penna di Thompson: piccoli uomini delusi dalla vita, incapaci d'innalzarsi al di sopra d'un'usuale mediocrità, e perciò gangster sui generis, molto lontani dall'icona dell'eroe, seppur negativo; tuttavia, si tratta di personaggi intrisi fino al midollo d'atmosfera noir, per il loro essere destinati alla sconfitta, e, stavolta, più che in qualsiasi altro caso, proprio per la loro poca dimestichezza, o scarsa credibilità, nell'essere gangster. Per di più, tali personaggi, così visceralmente noir - il cassiere, il barista, il pensionato, il poliziotto indebitato, la moglie insoddisfatta e, persino, il capo della banda, eroe solitario appena uscito di prigione che sogna il colpo della vita per sfuggire una realtà che, altrimenti (lui lo sa...), non potrà che metterlo ai margini - si muovono tutti negli spazi d'una città che, a parte l'ippodromo, è costituita da luoghi non più conosciuti, spazi qualsiasi e non più determinati, dentro un'astrazione del milieu che azzera ogni differenza ambientale tra luogo e luogo, tra città e città, e che è tipica non solo del genere noir ma - infine - di tutta la rappresentazione degli spazi, urbani e non urbani, esperita dall'arte contemporanea. Insomma, Rapina a mano armata, sull'onda del successo di quegli anni, è un film nero esaustivo e convincente, tra i più belli del genere.

Nondimeno, come per ogni altro film cui l'autore si dedicherà, lo scopo di Kubrick, anche in The Killing, esula dalla semplice legenda di genere. Ad un secondo livello - più alto rispetto alla lettura che si è appena data -, Rapina a mano armata è una metainvenzione cinematografica, un'opera post-moderna, nella misura in cui usa le costanti del noir proprio mentre introduce variabili inusitate, per disvelare le architetture e le dinamiche che fanno del Cinema un quid diverso dalla realtà, un mondo a sé stante, un artificio su cui il creatore ha il pieno e totale controllo - che è poi l'unico grande mito kubrickiano: allontanarsi dalla Vita, che è sfuggente, per dedicarsi all'Arte, che è idea pura, e, in quanto tale, non può sfuggire al governo umano. D'altra parte, il modo migliore per esibire la potenza umana nell'ambito della produzione artistica, consiste, appunto, nel fare sfoggio dei criteri di costruzione dell'opera stessa, mostrando gli snodi dell'ingranaggio, cosicché il fruitore possa quasi riprodurre, nel proprio atto di fruizione, l'iter creativo dell'artista e, in qualche modo, parteciparne. Nell'arco del progetto complessivo di Kubrick autore, potremmo dire che il suo è un fare Cinema a faccia vista, difficile da comprendere, talvolta, perché complessi e variegati sono i riferimenti extracinematografici, eppure sempre limpidonell'esporre, in maniera più o meno indiretta, le logiche di costruzione che stanno al fondo di ciascuna opera.

In tal senso, allora, e in ossequio alla coerenza raziocinante del disvelamento del meccanismo, Rapina a mano armata non poteva esibire il proprio sé cinematografico se non introducendo, appunto, alcune cospicue variabilidi genere: così da impedire allo spettatore la realizzazione di quel principio d'immedesimazione che, invece, era stata la fortuna di buona parte del Cinema Classico - l'immedesimazione con i meccanismi semiotici di genere - e che poi è il segreto d'ogni Cinema d'Intrattenimento (e non solo, forse). Perciò, si doveva distanziare lo spettatore fino a renderlo sveglio - e non sopito come di fronte a un sogno - proprio andando a intervenire sui segni di genere, talvolta negandoli in sottrazione e talaltra riempiendoli di qualità e notazioni esuberanti: in altri termini, confutando e oltrepassando il noir, laddove, in prima istanza, ci si era industriati a emulare i suoi segni e simboli e le sue icone e funzioni.

Variabili in sottrazione, dunque. In The Killing, si possono identificare vari segni e procedimenti che, a ben guardare, appaiono vere e proprie decurtazioni del codice noir. Innanzitutto, si pensi all'uso di quella luce fotografica che non va a cercare i chiarori contrapposti alle ombre - l'espressionismo del noir, ma, anzi, si mostra diafana, fredda e il più levigata possibile: la fotografia del film espone le vicende come dati consegnati all'osservazione e alla riflessione, senza voler produure adesioni etiche o sentimentali al narrato. In secondo luogo - ma è ciò che fa di più l'originalità del film -, si comprenda bene il senso della demolizione della linearità del tempo, per cui la vicenda è narrata, nella sua interezza, con scarti verso il passato più o meno consistenti, anticipazioni del futuro rispetto a un presente che, dato il perenne guizzare di momento in momento, finisce per nemmeno sussistere e, infine, continue ripetizioni, quasi a riavvolgere il nastro dell'arco temporale determinato; la voce narrante accompagna e introduce gli zig zag _ del tempo, non tanto, però, al fine di costruire una durata in cui i piani temporali si confondono e divengono _pura virtualità, quanto, piuttosto, per raccontare passato, presente e futuro in maniera funzionale alla comprensione intellettuale dello spettatore, a prescindere dalle sue necessità di fusione identificatoria col flusso diegetico del film; e la stessa voce narrante è impersonale, sta fuori dalla storia del film, e, impedendo l'identificazione spettatoriale con qualsivoglia personaggio - e l'identificazione era un must _della comunicazione noir -, favorisce, altresì, la _coincidenza del punto di vista dello spettatore con quello dell'autore. In terzo luogo, si noti come nessun accento melodrammatico infici il rigore d'analisi con cui sono osservate le vicende dei personaggi; diciamo quasi perché, in effetti, la ridicola ossessione per mezzo della quale il cassiere - il personaggio più imbelle di tutta la storia - si ostina a credere alla moglie e ad amarla è imbastita, invece, secondo un gusto talmente melò da sembrare materia esterna al film o, più precisamente, il contrasto funzionale che accentua il distacco con cui sono narrate tutte le altre vicende, al punto da esaltare, in tale distacco - che è il negativo della passione partecipata del noir -, il modo narrativo predominante. Ancora: si osservi il modo in cui è raccontata la strage che sopraggiunge quasi ad epilogo di film - strage in cui rimangono uccisi il ganzo della moglie del cassiere, che vorrebbe impadronirsi del bottino, e tutti i componenti della banda, eccetto il personaggio del capo, interpretato da Hayden; salta all'occhio, innanzitutto, l'incongruenza per cui The Killing, cioè, appunto, «l'uccisione», la «strage», occupa non più di un minuto di film, mentre un noir classico, invece, avrebbe piazzato questa sequenza al cuore della narrazione e gli avrebbe dedicato ben più minutaggio, in modo da far raggiungere il climax della fusione spettatoriale proprio a questo punto; Kubrick, invece, comprime al massimo la rappresentazione e, coi modi di un montaggio ellittico, ci mostra prima l'irruzione dell'assassino nella stanza in cui la banda attende la divisione del bottino, poi l'intervento del cassiere che fa esplodere la sparatoria e, subito dopo, senza apparenti cesure temporali, i corpi di tutti i malviventi stesi a terra e ormai privi di vita; è evidente il salto di un passaggio, la sparatoria stessa, a ennesima dimostrazione dell'autonomia linguistica del congegno cinema e a riprova, ancora, di una narrazione che, contrariamente a quella noir, vuole sottrarsi alle facilità dello spettacolo più retrivo.

In ultima analisi, si ricordi come - quasi fosse l'accordo base d'una sinfonia - un unico tipo di movimento di macchina sia presente nel film, a sottrazione, ancora, di tutti gli altri e a suggello evidente d'un'individualità stilistica che non ha timore alcuno ad autoaffermarsi: si tratta del carrello laterale, che attraversa tutta l'opera, come se lo sguardo volesse - per così dire - nascondersi in un angolo e da lì seguire, con occhi attenti ma impassibili, l'evoluzione della storia e dei suoi personaggi. Ci sono, però, anche gli in più stilistici, a testimoniare la voglia d'emancipazione dalle gabbie del noir verso un cinema totale che trovi in se stesso il senso e la gratificazione: basti pensare, a mo' di esempi, all'uso, pressoché ininterrotto, degli obiettivi grandangolari, non troppo in voga in quegli anni, perché tendono ad allargare uno spazio che il noir voleva angusto e privo di fughe prospettiche, e alle metonimie che qualcuno ha trovato un po' vetuste, perché tipiche del cinema muto, come quella dell'uccellino nella gabbia inquadrato accanto al volto del cassiere ormai morto, presa in prestito dal Greed di Erich von Stroheim.

Ma è il complesso di questi procedimenti, di sottrazione e d'aggiunta, che permette a Kubrick, fin da Rapina a mano armata, di trascendere limiti e stili già codificati, in direzione di un discorso sul linguaggio del Cinema che giungerà, con gli anni, a individuare nel Cinema il mezzo d'espressione più ricco, totalizzante e autosufficiente che l'uomo abbia avuto a disposizione; fino a poter raggiungere la suprema astrazione del connubio di immagini e suoni, come nelle visioni frattaliche di 2001: Odissea nello spazio, segni di un Cinema oramai talmente maturo da aver perduto persino la necessità della referenza al reale, e in grado, altresì, di mostrarsi - quasi - del tutto autoreferenziale

Alla luce di quanto detto, Rapina a mano armata può essere interpretato alla stregua di un puro congegno o meccanismo che si esprime mostrando, in primo luogo, le proprie dinamiche? In altri termini: già in questo film, il significante, almeno in qualche misura, si stacca dal suo significato e reclama l'autonomia che, nel seguito dell'opera di Kubrick, lo condurrà - anche solo per qualche breve frammento - a vuotarsi delle semanticità abusate fino a riempirsi di sensi nuovi, inesplorati e, soprattutto, delegati all'invenzione del soggetto percipiente? Diciamo che il processo di emancipazione del significante comincia proprio con The Killing. Ma il significante - lo sappiamo -, in Kubrick almeno, non perverrà mai alla completa libertà.
Ci saranno quasi sempre romanzi, dietro ai film e, comunque, una storia, e dei personaggi. Anche il Kubrick più astratto non cesserà mai d'essere narratore. Quindi, anche The Killing - pur nella sua struttura lambiccata - racconta, e racconta bene. Narra dell'eterna storia dell'uomo e di quell'ironia che si chiama vita. Ovvero: dell'uomo che, per ironia, qual siano i suoi progetti e i suoi sogni, e di conseguenza il suo agire, finisce sempre col ritrovarsi di fronte all'imprevisto, che arruffa e mette a soqquadro.
Così, quello sguardo allucinato di Johnny Clay/Sterling Hayden all'aeroporto - che guarda il denaro della rapina volteggiare sulla pista per l'inopinata corsa di un cagnolino... - cagnolino che ha fatto deviare il veicolo dei bagagli... - deviazione che ha fatto cadere la valigia con la refurtiva..., quello sguardo, dicevamo, è sineddoche dello sguardo di Kubrick, che, d'ora in poi, racconterà sempre di uomini - più o meno grandi - ridotti a nulla di fronte all'impensato.