Conoscete il termine hate-watching, tanto in voga sui social? Si tratta del guardare una serie per il solo piacere di criticarla, possibilmente su Twitter o su blog. Nelle ultime settimane, soprattutto negli USA ma non solo, True Detective è diventata la regina dell'hate-watching, ovvero è istantaneamente passata dall'essere la serie più apprezzata dello scorso anno e la più attesa di questo 2015 alla più discussa e disprezzata dal pubblico e dalla critica USA.
Chi ha seguito le nostre recensioni in queste settimane saprà che da queste parti non la pensiamo così, anzi più volte abbiamo dimostrato di apprezzare alcune scelte di questa seconda stagione e di avere tutte le intenzioni e la giusta predisposizione per innamorarcene così come successo, inaspettatamente, lo scorso anno. Se, arrivati al sesto episodio Church in Ruins, la scintilla non c'è stata, è molto probabile che non accadrà più. Pazienza, diciamo noi e voi, ma Nic Pizzolatto probabilmente avrà un po' di grane da risolvere, perché così come molti dei meriti lo scorso anno erano certamente suoi, altrettanti, se non di più, sono questa volta i suoi demeriti.
Il rischio del One Man Show
Non sono molte le serie che si affidano quasi completamente ad un unico autore, e sono ancora di meno gli autori che si prendono una tale responsabilità: David Simon (The Wire), Matthew Weiner (Mad Men), Tom Fontana (Oz) e Aaron Sorkin (West Wing) sono tre prestigiosi esempi, ma anche la dimostrazione che per arrivare a certi livelli di eccellenza, e soprattutto per mantenere un qualità così alta, c'è bisogno di esperienza, di solidità, di punti di riferimento. Di una crescita costante. Quando gli autori di cui sopra hanno spesso scelto di lavorare da soli o quasi alle sceneggiature e alle storie, hanno comunque potuto contare su dei partner creativi (attori, registi, produttori) che hanno vissuto e seguito passo passo il progetto, spesso fin dall'inizio, e hanno potuto contribuire attivamente.
Pizzolatto invece con la seconda stagione ha scelto di cambiare tutto: cast, regista, ambientazioni, produttori, direttore della fotografia, montatori, costumisti e perfino la canzone della sigla. Vuol dire ricominciare da zero. Vuol dire avere le palle. Vuol dire avere potere. Ma vuol dire anche avere addosso il peso del mondo, perché qualsiasi cosa non va in questo True Detective 2, dal singolo dialogo alla recitazione degli attori, è colpa di Nic Pizzolatto. Non è bella, quindi, questa crociata anti-True Detective che stiamo osservando un po' tutti (ma che in realtà era già cominciata un anno fa con le accuse di plagio, di misoginia e la disastrosa award season) e non è certamente necessaria, ma è anche l'inevitabile conseguenza di un peccato di presunzione (anche da parte della stessa HBO, ci mancherebbe) che poteva benissimo essere evitato.
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Che cavolo stai dicendo Nic?
Tutta questa premessa è per dire che se di questo episodio 6 (due alla fine quindi) non riusciamo ad essere del tutto soddisfatti (per usare un eufemismo) non è perché abbiamo deciso di farlo per sport o per antipatia verso il povero Nic o gli attori, ma perché veramente ci sono scelte che fanno cadere le braccia e che mai avremmo pensato di trovare in una serie che si chiama True Detective.
Non è un brutto episodio e non è nemmeno noioso, ma è un terzultimo episodio, soprattutto in quanto tale, molto sbagliato.
La settimana scorsa avevamo apprezzato i momenti legati alla scoperta di Ray/Colin Farrell mentre avevamo bocciato tutti i momenti di intimità tra Frank/Vince Vaughn e la moglie Jordan/Kelly Reilly. La buona notizia è che in questo episodio questi ultimi ci vengono risparmiati, ma è il personaggio del Detective Velcoro che scivola, in più di una occasione, nel patetico con dialoghi e momenti che di naturale non hanno proprio nulla. Per di più il confronto tanto atteso tra i due nemici/amici è l'ennesimo opening anticlimatico di questa stagione, un confronto che ancora una volta non porta a conseguenze concrete ma soltanto all'ennesimo studio sui personaggi.
Il problema è che siamo al sesto episodio, due alla fine. Anzi no, il problema vero non è nemmeno questo, ma che a due episodi dalla fine non solo non siamo più vicini alla risoluzione del caso, ma ancora non abbiamo ben chiaro (e con noi i detective stessi, ma non è una bella consolazione) quale sia questo benedetto caso. Cosa stanno cercando i nostri (not so) true detectives? I diamanti blu? L'hard disk? Irena Rulfo? I corrotti di Vinci? La donna torturata e uccisa nella cabina? L'uomo vestito da corvo? I nostri tre non sembrano sapere quello che stanno facendo e soprattutto perché lo stanno facendo, tanto è vero che quando la Ani/Rachel McAdams quasi per caso trova Vera (la ragazza scomparsa la cui esistenza, a dire il vero, è appena accennata in un paio di episodi precedenti) è la prima a essere sorpresa.
Come se non bastasse Pizzolatto decide di inserire altra carne al fuoco: un vecchio poliziotto che racconta di una rapina ad una gioielleria avvenuta durante la Rivolta di Los Angeles del 1992, in cui vennero rubati i famosi diamanti blu e due bambini rimasero orfani. Chi sono questi due bambini (adesso più che ventenni)? I due figli del Sindaco Chassani, qualcun altro che conosciamo o altre due anonime figure che vengono inserite per non essere più recuperate? E vogliamo parlare delle due scene di Frank a casa della vedova di Stan, di come ne consola il figlio? Tutto molto interessante, e anche perfettamente coerente con quanto già visto su Frank, il suo desiderio di paternità e la sua infanzia difficile. Ma davvero era così necessario quando la maggior parte degli spettatori (noi compresi) avranno fatto una fatica incredibile a ricordare anche solo chi fosse questo Stan? E quando pure ci si ricorda che è uno degli scagnozzi dei primi episodi fatto fuori non si sa da chi o perché (ovviamente) la domanda è sempre una sola: perché? È vero che il genere noir è sempre stato molto intricato, ma nemmeno sul set de Il grande sonno avevano così poche certezze!
Troppi nodi per un solo pettine
L'altra domanda che non può che nascere sempre più spontanea è: ma tutto questo, avrà davvero a che fare con l'omicidio di Ben Caspere? Con i problemi "finanziari" di Frank? Con quelli personali di Ray, padre non biologico che non vuole accettare la verità? Con l'infanzia difficile e legata ai culti religiosi di Ani? E che dire del passato di Paul Woodrugh/Taylor Kitsch, di Black Mountain, dell'omosessualità taciuta, delle sue difficili situazioni con madre e fidanzata? Le due ore rimaste sono un tempo sufficiente per riuscire a dare una risposta, una compiutezza a tutto questo? Quasi certamente no, ma non sarebbe nemmeno così grave se tutta questa montagna di roba non influisse negativamente sul ritmo e sulla fruibilità della serie stessa, perché un prodotto seriale dovrebbe vivere di stimoli, dovrebbe sfruttare la capacità di farti sentire i personaggi, i loro problemi e le loro situazioni. Non allontanarti e disinteressarti.
Ma che Pizzolatto possa non conoscere così bene il mondo delle serie TV può essere anche legittimo. Che nessuno alla HBO si sia reso conto di questi problemi è molto più grave e fa francamente riflettere, e molto, sulle difficoltà che il canale sta comunque attraversando (nonostante il grande successo de Il trono di spade) da quando si sono fatti avanti rivali importanti come AMC, Netflix, Amazon etc etc... Anche ammesso che nei prossimi due episodi Pizzolatto riesca a ritrovare le fila di tutto e a restituirci un finale soddisfacente al 100%, tutte le difficoltà che hanno trovato gli spettatori di questo True Detective 2 non potranno che avere un peso sul futuro del canale, dell'autore e della serie stessa. Ammesso che ci sia davvero l'intenzione di proseguirla.
Occhi chiusi o spalancati?
Tornando comunque all'episodio in questione, Church in Ruins verrà comunque ricordato per essere l'episodio della tanto chiacchierata orgia, già ampiamente pubblicizzata mesi or sono. Non era difficile immaginare che l'orgia in questione, nonostante la presenza di pornostar e la nomea HBO riguardo al sesso, non sarebbe stata esplicita quanto molti avrebbero voluto; fortuna vuole che nemmeno si sia tentato di seguire a tutti i costi la strada percorsa da Eyes wide shut, perché è vero che Pizzolatto ai paragoni scomodi deve aver fatto il callo ormai, ma un confronto con Kubrick non si augura nemmeno al tuo peggior nemico.
Piuttosto sono interessanti le scelte di regia di Miguel Sapochnik - regista HBO sempre più lanciato anche se ingiustamente escluso dagli Emmy per l'impressionante Aspra dimora di Game of Thrones - che mette al centro dell'inquadratura sempre e solo Rachel McAdams, lasciando ai lati dello schermo i molteplici nudi e amplessi, e accompagnandola con una colonna sonora atipica e inaspettata (Harmonielehre di John Adams).
Anche qui gli attori non sono sempre aiutati dalla sceneggiatura e da alcune scelte non esattamente felici come il già citato ritrovamento semi-casuale di Vera o la visione Lynchiana e TwinPeaksiana dell'uomo che aveva violentata Ani da piccola, o, ancora peggio, Farrell e Kitsch che arrivano di nascosto fuori l'ufficio per sentire giusto in tempo quello che serve e poi fuggire con una luna piena gigante nel cielo.
Ma nonostante tutto la McAdams, ancora una volta, ce la mette tutta per regalarci un personaggio forte, volitivo, coraggioso e determinato. Per dimostrare di essere lei la true detective.
Anche se l'impressione è che di true rimanga sempre meno.
Movieplayer.it
3.0/5