Quel gran nichilista di Rust Cohle aveva ragione: "Il tempo è un cerchio piatto". La teoria dell'eterno ritorno è infallibile, cocciuta, coerente col suo nome. E rieccola qui, in True Detective 3. Ancora una volta tra noi per ribadire che da certi destini non c'è scampo. Lo sa bene anche Wayne Hays che in quella foresta in Vietnam ci è entrato senza uscirne mai più. L'ultima, suggestive e cripitca immagine che chiude True Detective 3 è l'allegoria di un'esistenza intera, ovvero la condanna di un uomo costretto a convivere con il trauma, il senso di colpa e una profonda inadeguatezza.
True Detective 3 è riuscita a immergere il pubblico nella sua arida desolazione umana, ma ha anche agito di astuzia quando ha rievocato situazioni (dialoghi tra colleghi in automobile, salti temporali) e contesti (alberi secchi, strade deserte, città vuote) molto familiari per i nostalgici di Rust e Marty. Al di là di una risoluzione del caso per alcuni deludente (ammesso che fosse davvero il nocciolo dello show) e frettolosa per colpa di un espediente narrativo alquanto ingenuo e didascalico (e qui siamo d'accordo), questo nuovo ciclo di episodi ci ha affascinato e convinto e in questo articolo proviamo a sottolineare cosa ci è piaciuto di True Detective 3.
Il male di vivere del detective Hays è una selva oscura dentro la quale è difficile trovare risposte. E così la scomparsa dei fratelli Purcell, vero e proprio deus ex machina della storia, serve da grimaldello per scardinare la personalità misteriosa del protagonista. Questo è soltanto uno dei meriti evidenti di una stagione che ha risollevato le sorti di quel True Detective rimasto, a giusta ragione, nella perenne e enorme ombra della sua sontuosa prima stagione. Alimentato da una seconda annata meno ispirata ma non così pessima come si dice e legge in giro, lo show HBO scritto da Nic Pizzolatto ha fatto quello che ogni buon thriller deve fare: inquietato, ispirato congetture (il web è pieno di teorie e ipotesi su True Detective 3), avvinghiato alla poltrone spettatori invischiati dentro un caso torbido.
1. Indimenticabile: Mahershala Ali
Partiamo dal dato più ovvio ed evidente, ovvero dalla bravura spiazzante di chi a quel Wayne ha dato anima, corpo, malessere, spaesamento, rancore e ossessioni: Mahershala Ali. L'attore, fresco di secondo Oscar in bacheca, ha retto sulle sue spalle un personaggio ispido, trincerato dentro se stesso e fragile nella facilità con cui veniva inghiottito dai suoi stessi demoni. La grandezza di Ali è stata quella di aver donato una sfumatura diversa ai tre Wayne Hays visti in True Detective 3: quello del 1980, quello del 1990 e quello del 2015. Se da giovane ci è sembrato istintivo, volenteroso e leggermente più incline ad acerbi sorrisi innamorati, nel 1990 troviamo un uomo più disilluso e dolente, una persona cauta, segnata da risentimenti e rancori professionali e familiari. Da anziano, poi, Ali tocca l'apice della sua performance. La camminata lenta con le braccia penzolanti e il busto leggermente in avanti, le movenze rallentate dall'età e l'eloquio reso incerto dalla malattia. E poi il terreno prediletto sul quale questo grande attore vince la sua partita: lo sguardo. Negli occhi del vecchio Hays c'è di tutto. Ci sono i pentimenti di una vita intera, c'è un incolmabile vuoto d'amore, ci sono sprazzi di lucidità spazzati via (letteralmente in un batter d'occhio) da un'amnesia inesorabile. Il contrasto tra voglia di combattere e resa dinanzi al passare del tempo è tutto lì, sotto quegli occhiali del vecchio detective stanco ma non ancora arreso.
2. West e Amelia: comprimari complementari
Uno dei difetti principali della seconda stagione di True Detective era quello di aver alzato troppo il tiro, dedicandosi a troppi personaggi. Ce n'erano sicuramente due di troppo (ovvero quelli interpretati da Taylor Kitsch e Vince Vaughn), e si avvertiva la mancanza di un rapporto di coppia più centrato e solido a livello di approfondimento psicologico. Pizzolatto ha così imparato dai propri errori dedicando la terza stagione a un solo personaggio, ispezionato in ogni dove attraverso tre piani temporali intersecati. Però non vanno dimenticati due comprimari che si sono rivelati complementari al protagonista, utili a definirlo meglio attraverso i loro rapporto. Stiamo parlando del collega West e di sua moglie Amelia, tratteggiati con cura e meno marginali di quel che possano sembrare. Il detective West, in maniera molto simile (a dire il vero) al Marty di Woody Harrelson, rappresenta il contraltare di Hays, ovvero la parte più pragmatica, terrena e materica della coppia di agenti.
Laddove Hays è più tormentato e arginato, West esprime le sue emozioni in modo più esplicito, arrivando anche a dimostrarsi più empatico del collega quando partecipa al dolore del padre dei fratelli Purcell. Se West rappresenta l'opposto professionale di Hays, Amelia è il suo speculare privato, relazionale ed emotivo. Donna forte e ostinata, capisce che l'unico modo per stare davvero vicina a un uomo così perso in se stesso è condividere il suo terreno di caccia. Così il libro di Amelia, dedicato al misterioso caso Purcell, diventa motivo di discordia (in apparenza), per poi rivelarsi il vero collante tra i due. La loro coppia è il cuore pulsante di una serie (come vi abbiamo segnalato nella spiegazione del finale di True Detective 3 in cui Amelia e Wayne trovano nelle debolezze della loro coppia (invidie e incomprensioni) e nel balordo del mondo (il caso Purcell) un motivo per stringersi ancora di più e trovare almeno un appiglio, un motivo per andare avanti.
3. L'ambientazione
La sigla di True Detective, sempre raffinata, evocativa e contraddistinta da scelte musicali mai banali, vale come indizio. I personaggi si fondono nell'ambientazione, mentre l'ambientazione si fonde nei personaggi. Occhi e strade, bocche e rami, ombre e panorami si intrecciano in un gioco di rimandi significativo per gli intenti della serie. Anche in questa terza stagione, che abbandona il contesto urbano più canonico della seconda, impara la lezione della prima e ci mostra una zona dell'Arkansas particolarmente arida, secca, desolata e inquietante. Le strade viste nel corso della stagione sono perennemente deserte, i locali semivuoti, non esiste vitalità, né caos. Il che costringe i protagonisti a muoversi dentro spazi che restituiscono tutto il vuoto relazionale e lo squallore che sono costretti ad affrontare cercando di fare chiarezza nel caso Purcell.
4. Se il protagonista è il caso da risolvere
Un fratellino e una sorellina si allontanano da casa in bici. Il primo verrà ritrovato morto, della seconda si perderanno le tracce per anni. L'indagine prende il via, scoprendo subito un contesto familiare malsano, due genitori fragili, inspiegabili buchi nelle stanzette dei fratelli, zii sospetti. Il caso Purcell ci ha intrigato e coinvolto, soprattutto perché ha aperto inquietanti scenari di abusi e violenza. Ma la domanda è: True Detective non ci ha forse insegnato che il caso da risolvere è solo lo strumento migliore per sondare l'animo dei suoi detective? Quel "vero" nel titolo non vuole forse spostare l'attenzione dall'indagine sul campo a quello dentro la persona? Lapalissiano rispondere con un sonoro sì. Ecco perché questa terza stagione non ha fatto eccezione facendo dell'animo tormentato del protagonista il vero mistero irrisolvibile in cui addentrarsi poco per volta. Ancora più di Rust, Hays è davvero un personaggio ermetico, scostante e insondabile sino in fondo. Se il personaggio di Matthew McConaughey esprimeva il suo malessere, Hays implode, tace, si chiude a riccio. Quello che abbiamo capito di quest'uomo è che non si è mai trovato davvero, che da quella giungla vietnamita non è mai più uscito. Mai davvero soddisfatto nel suo posto nel mondo, il dannato Hays è stato un figlio, un soldato, un padre, un marito, un collega e un amico inadatto al ruolo. Un uomo senza pace, nemmeno quando i fantasmi gli avevano sussurrato nell'orecchio un motivo per sperare nella luce.
5. Scrittura semplice e schietta
Abbiamo amato le digressioni metafisiche di Rust. Abbiamo storto il naso davanti ai dialoghi più forzati di Velcoro e Bezzerides. Questa volta dobbiamo applaudire dinanzi a una sceneggiatura complessa, ma non complicata, impreziosita da dialoghi semplici, scarni, schietti e assai realistici. Priva delle astrazioni e delle digressioni filosofiche della prima stagione, True Detective 3 è risultata più accessibile ma non per questo meno raffinata e preziosa. Gli scambi di battute tra i personaggi, essenziali e sempre utili a mandare avanti la storia, hanno avuto il sapore della vita vissuta, di personaggi scottati dalla vita. Il tutto confluito in un racconto che, andando all'essenza di tutto, non è altro che una storia di due famiglie. Quella Purcell, in cui i bambini non ridevano, non protetti da due genitori deboli. E quella degli Hays, stretti in un solido abbraccio, con l'amore, la comprensione e la complicità a fare da antidoto ai mali del mondo. Insomma, se è vero che il tempo è un cerchio piatto, True Detective 3 ha fatto centro. Ancora una volta. Come la prima volta. L'eterno ritorno del meglio delle serie tv.