L'ottavo film di Quentin Tarantino rappresenta l'ennesimo ritorno al passato di un regista che ama guardarsi indietro - e riesumare il cinema spesso dimenticato - per andare alla ricerca delle ragioni che rendono l'America e il cinema di oggi quello che sono. Questo The Hateful Eight arriva nelle sale di tutto il mondo in un periodo in cui l'America è divisa in due fazioni per le primarie politiche, e in cui anche Hollywood si sente spaccata a metà per la polemica #OscarSoWhite e un tentativo di ammodernamento che fatica ad arrivare.
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L'ex enfant terrible di Hollywood, oggi, è un regista che fa paura molto più per i temi e i contenuti del suo cinema che per la violenza che ha sempre caratterizzato i suoi lavori: è un regista che non teme di andare contro la Disney e Star Wars per difendere la (difficile) distribuzione del proprio film e forse, proprio per questo, paga l'esclusione dalle nomination dell'Academy; è anche un autore che non si fa problemi ad impegnarsi in prima persona per la protesta contro le violenze della polizia americana. Che il buon Quentin lo voglia o no insomma - e che quella parte della critica, che ancora oggi non riconosce il valore e l'importanza del suo cinema, lo voglia o no - Tarantino è oggi un autore maturo, un autore impegnato, un autore molto più completo.
Questo non vuol dire che sia meno tarantiniano di una volta, anzi, il grande pregio di questo The Hateful Eight è proprio la capacità di mantenere un equilibrio tra il film di genere, esagerato ed esasperato, e la riflessione sulla (mancanza di) morale dell'America di ieri e di oggi. Tarantino l'aveva già fatto brillantemente con Django Unchained e il tema dello schiavismo e in fondo anche Bastardi senza gloria e il nazismo, ma questa volta non si "limita" ad una catartica, esilarante e giusta vendetta, ma va inutilmente alla ricerca di una giustizia che non sembra esserci, così come la speranza.
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Per qualche millimetro in più
Ma prima ancora di addentrarci tra i protagonisti e i temi della sua storia, facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire i perché di alcune scelte così inusuali per Tarantino: ad esempio si è tanto parlato della scelta del 70mm (o più precisamente l'Ultra Panavision 70 utilizzato per Ben Hur e La più grande storia mai raccontata), soprattutto per tutte le difficoltà distributive che ha comportato, ma era evidente fin dalle prime immagini dei trailer che, grazie anche alla continuata collaborazione con l'eccellente direttore della fotografia Robert Richardson, il risultato sarebbe stato sbalorditivo. Così in effetti è stato, e fin dall'incipit che vede la carrozza viaggiare attraverso un innevato Wyoming si può capire il perché dell'insistenza del regista per un formato ormai obsoleto (l'ultimo ad essersi "intestardito" così era stato l'amico di sempre Paul Thomas Anderson per il suo The Master).
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Guardando il film nella sua interezza, però, si capisce anche che c'è molto di più: molti sanno che dopo varie difficoltà (tra cui la denuncia ad un magazine online che aveva pubblicato illegalmente lo script del film) Tarantino aveva portato questo suo nuovo progetto a teatro per un unico evento speciale di beneficenza; dopo aver visto il film non è difficile capire il perché, visto che si tratta di un'opera perfetta per il palco e che una regia più tradizionale non sarebbe stata in grado di rendere con la stessa efficacia. Da qui la scelta del 70mm, di inquadrature molto ampie e profonde che effettivamente danno la sensazione anche al pubblico in sala di assistere ad uno spettacolo unico e che - quasi paradossalmente, visto che il 70mm era stato pensato soprattutto per gli esterni - rendono giustizia alla splendida scenografia dell'Emporio di Minnie in cui si svolge gran parte dell'azione e anche alla recitazione corale del cast.
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La vera ciliegina sulla già ricchissima torta, però, è rappresentata dalla colonna sonora del Maestro Ennio Morricone che ha la stessa doppia valenza del 70mm: creare quell'effetto "oldie" da (spaghetti) western d'annata - e anche il fatto che dietro alla distribuzione italiana ci sia il (Sergio) Leone Film Group non è certo un caso - e aiutare a riempire e riscaldare quella grande e fredda stanza che è il cuore dell'azione con musiche che non sono mai un semplice accompagnamento ma protagoniste quanto gli otto personaggi del titolo.
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L'America in una stanza
Se continuiamo a far riferimento alla scenografia e allo stanzone in cui è ambientato gran parte del film non è certamente per caso, ma perché la scelta di Tarantino è chiara fin dalle premesse: la bufera che incalza, e si fa sempre più letale, trasforma quello che in un western "tradizionale" sarebbe stato un lungo, forse anche pericoloso, viaggio verso una meta lontana in un kammerspiel claustrofobico che non può che far pensare ai Dieci piccoli indiani di Agatha Christie o anche a La cosa di John Carpenter, ispirazioni confermate anche dallo stesso Tarantino. Anche nelle due opere citate c'erano omicidi e persone che mentivano sulla loro reale identità ma Tarantino si spinge oltre, perché se è vero che anche nel suo film ci sono segreti e colpi di scena, su una cosa questi otto personaggi non mentono mai, ed è proprio il loro essere hateful: non (solo) odiosi, ma soprattutto carichi d'odio.
Odio verso il prossimo perché nero, perché nordista o sudista, perché straniero (messicano o inglese che sia), perché donna. Tarantino chiude in un'unica stanza otto esemplari diversi dell'America di 160 anni or sono, e lo fa per dimostrarci che non solo poco è cambiato ma che in fondo se lui come regista è quello che è ed è stato negli ultimi 20 anni dipende proprio da questa radici ben poco nobili. E che in fondo la brutalità de Le iene che sconvolse il Sundance nel 1992 è ben poca cosa rispetto a quello da cui discende. Potremmo infatti chiamarli iene o bastardi questi nuovi "odiosi" otto personaggi, ma in fondo poco cambierebbe, se non che i colori di un tempo (White, Pink, Brown, Orange...) questa volta non sono solo dei modi creativi per celare l'identità, ma un modo razzista per svilirla e discriminarla.
Una nazione fondata sull'odio
Il cinema di Quentin Tarantino parte così da persone che si chiamavano per colori invece che per nome e si conclude (per ora, ovviamente) con persone che si uccidono in nome del colore della propria pelle. Quel cinema "violento e selvaggio" appare oggi certamente preferibile alla ferocia ancora più spietata, insensata e priva di morale di quest'ultimo film, ma talmente ben contestualizzata da essere non più solo grottesca e pulp, ma anche terribilmente vera.
Non si fa fatica quindi a credere che questo The Hateful Eight abbia diviso, sconvolto e infastidito la critica USA come mai era successo prima: perché pur rimanendo un piacevolissimo "divertimento" tarantiniano grazie ai soliti dialoghi al fulmicotone ed almeno tre interpretazioni - Samuel L. Jackson, Jennifer Jason Leigh e Walton Goggins - tra le migliori del suo pur impressionante ruolino da grande regista di attori, questo The Hateful Eight non è certamente un film che si può etichettare come un semplice divertissement. E nemmeno con la spregevole definizione di "solita accozzaglia di generi e citazioni" con cui troppo spesso e troppo facilmente si è soliti minimizzare una filmografia che, però, col passare del tempo si fa sempre più significativa, "pesante" ed impossibile da ignorare.
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Perché The Hateful Eight è tutto questo: è un thriller, è un horror, è un western, è un omaggio ai grande classici del cinema americano e di quello italianissimo di Sergio Leone e Sergio Corbucci, è un film divertente ed un film esaltante. Ma è anche e soprattutto un film serissimo di un regista ormai inconsapevolmente maturo e politico; un regista che, anche quando vorrebbe solo dedicarsi alla sua sana passione cinefila, non riesce a fare a meno di dire la sua. E, anche per questo, non è mai banale.
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Movieplayer.it
4.5/5