"Una sedia. Un tavolo. Una lampada. C'è una finestra con le tende bianche. E il vetro è infrangibile, ma non perché temono che scappiamo. Non arriveremmo lontano. Temono altre fughe". È un noto passo del romanzo Il Racconto dell'Ancella, di Margaret Atwood, da cui è nata The Handmaid's Tale. Nell'ultima sequenza del finale, June Osborne, che nella sua vita da ancella era stata ribattezzata Difred, torna sul luogo del delitto, nella casa dei Waterford, ormai una quinta slabbrata e sventrata.

E lì, finalmente libera, inizia a ricordare. Prende un registratore e inizia a dettare i suoi pensieri, le sue memorie, per lasciare un testamento. Una delle serie più belle dell'ultimo decennio si conclude così. Con il romanzo che nasce dall'esperienza di June, dai suoi ricordi rielaborati in quiete. È un cerchio che si chiude e ci riporta all'inizio della sua esperienza, in quell'angusta stanza dedicata all'ancella messa a disposizione di ogni famiglia. Il significato del finale di The Handmaid's Tale è questo. Ma ce ne sono molti altri.
L'importanza della Memoria
Era stata la madre di June, poco prima, a suggerirle di scrivere un libro. Per lasciare una storia a chi non ha ancora trovato i propri cari. Una storia che inciti a non mollare mai. Una storia per non dimenticare. La conclusione di The Handmaid's Tale ci fa riflettere sull'importanza della Memoria - lo scriviamo così, in maiuscolo, come quando parliamo della giornata ad essa dedicata - che non è semplice ricordo. È il ricordo con il coraggio, come diceva Ferruccio De Bortoli nel documentario Liliana. È molto intenso pensarci oggi, quando, dopo decenni passati a parlare di Memoria, sembra che questa non esista più, che i fatti di cui ci si ricorda sembrano invece essere stati dimenticati. La Memoria esiste perché gli stessi errori non vengano più commessi. E invece oggi la Memoria sembra essere andata perduta. E vedere una sopravvissuta come June scrivere le sue memorie è allo stesso tempo commovente e amaro.
Le sorprendenti risonanze con l'attualità

È uno dei significati che ci ha portato all'epilogo di una serie che è ovviamente finzione, è ovviamente distopia, ma con degli agganci con la realtà che vanno ancora al di là di quelli che credevamo. È una serie sulla condizione della donna. Ma la sua forza è nel dare uno sguardo più ampio, universale, e avere delle risonanze sorprendenti con l'attualità. Se nella recensione dei primi episodi di questa stagione ci chiedevamo quanto Gilead fosse l'America di oggi, scissa e senza i suoi valori, in questo ending vediamo delle scene commoventi come quelle che vedono finalmente ricongiunte le famiglie. E allora, come non pensare a quante famiglie oggi sono divise dalle guerre, dalle migrazioni, a quante un giorno si riuniranno e a quante non lo faranno mai?
Kobane, Kiev, Gaza e quei posti dove la vita si è fermata

"Ho sognato Boston. Non com'era. Non com'è. Ma come sarebbe stata se non ci fosse stata Gilead". È questo che ci confessa la voce di June (Elisabeth Moss). E le immagini scorrono sulle vite spensierate di alcune donne che si sono potute evolvere, crescere e invecchiare secondo il corso naturale della vita, invece di restare bloccate per anni. E allora il pensiero va a come sarebbero oggi molti luoghi del mondo se non ci fossero state le guerre, le dittature, gli integralismi, i muri a fermare tutto. Se gli edifici fossero ancora in piedi, vivi, invece che sventrati, vuoti come cartone da buttare. Kobane, Kiev, Gaza e molti altri posti: lì la vita si è fermata. La Boston post Gilead, un luogo da ricostruire e da riportare alla vita, ci racconta proprio questo.
Hannah verrà...

Per un attimo, prima che in quella sequenza finale June inizi a dettare le sue memorie, vediamo una mano incontrare la sua. E una ragazza dai capelli ricci e neri, inquadrata di schiena. È Hannah, la figlia perduta, sottratta a June nel nome di Gilead, e assegnata ad un'altra famiglia. È il tassello che ancora manca nella sua vita. A sorpresa, il finale di The Handmaid's Tale non ci ha regalato il momento che attendevamo dall'inizio di tutta la serie. Forse perché, a livello temporale, è un percorso ancora lungo, tanti Stati devono ancora cadere prima di poterla raggiungere, e nella timeline così veloce e scandita di questa stagione non c'era posto per questi avvenimenti. Forse perché c'è un'altra serie in arrivo, The Testaments, e gli autori hanno voluto lasciare per quella storia un pezzetto di questa. O forse quel momento sognante, onirico, può essere interpretato anche come una sorta di ellissi narrativa. In un flasbhack, poco prima, avevamo visto June e Hannah quando erano ancora insieme. "La mamma torna sempre" aveva detto June. E allora, che ci facciano vedere quel momento o meno, noi ne siamo sicuri: Hannah verrà.
Serena Joy e la solidarietà femminile

Ma c'è ancora un nodo da sciogliere. È Serena Joy (Yvonne Strahovski), il personaggio che più di ogni altro ha camminato lungo una linea sottile tra Bene e Male. Non per colpa sua, ma per il retaggio che un mondo di uomini le ha inculcato a forza. Ma il suo essere una donna, il suo essere una madre è venuto fuori. "Sembra che io sia nessuno" dice Serena nel momento del suo commiato da Boston. "Sei sua madre, sii solo questo" le dice June, e il saluto tra le due ex duellanti è uno dei momenti più belli dell'intera serie. E ci porta uno dei significati più forti, quello che aspettavamo da sempre. Finalmente vediamo una donna che aiuta un'altra donna, due ragazze che si aiutano a vicenda. È la solidarietà femminile, la sorellanza, l'unione di intenti, in nome dei propri figli, della propria libertà. La risposta a tanti problemi è proprio questa.
Sotto il suo occhio

E poi c'è Dio. O, almeno, un Dio, un qualcosa in nome del quale si uccide, si arresta, si mette a tacere, ma che non è certo il Dio che dovrebbe essere, quello che ci hanno insegnato ad amare, ovviamente a chi crede. È nella penultima puntata che June, rivolgendosi a un comandante, dice chiaramente che cosa è accaduto a Gilead, che in fondo è quello che è accaduto da secoli ovunque. Perché da sempre, se esiste un Dio, esistono "persone che distorcono le sue parole, truffatori", come dice June. "Non si è mai trattato di pietà, ma di potere". Un altro dei significati di The Handmaid's Tale è proprio qui: la messa alla berlina di ogni integralismo. E allora possiamo parlare di un'opera che parla in maniera decisa dei diritti di tutte le donne. Ma che è ancora di più. È la dichiarazione universale dei diritti dell'umanità.