Non si scherza con l'arte! L'arte è pericolosa come la bocca di un leone: ti staccherà la testa a morsi!
L'enfatico discorso pronunciato - per voce dell'ottantasettenne Judd Hirsch - da Boris Schildkraut all'indirizzo del nipote Sammy Fabelman ha l'impatto di una fragorosa epifania. La similitudine proposta dallo zio Boris è ripresa dalla sua esperienza come domatore di leoni in una compagnia circense prima di iniziare a lavorare a Hollywood: quella stessa Hollywood che, fin dalla proiezione de Il più grande spettacolo del mondo, avrebbe fatto presa sull'animo di Sammy, per poi diventare il grande obiettivo della sua vita. The Fabelmans, però, non va confuso con una parabola di ascesa professionale sul modello di Saranno famosi, né si limita a una visione puramente romanticizzata della settima arte. In tal senso, la scoperta del cinema da parte del piccolo Sammy non potrebbe essere più emblematica: nel rovinoso scontro ferroviario realizzato nel 1952 da Cecil B. DeMille, la meraviglia si lega in modo inestricabile alla paura.
Il cinema secondo Steven Spielberg
Nel contesto della vastissima produzione di Steven Spielberg, The Fabelmans presenta una peculiarità importante: all'interno di una carriera ultracinquantennale, si tratta del suo primo film di natura espressamente metacinematografica. Inevitabile, del resto, dal momento che il copione firmato da Tony Kushner e dallo stesso Spielberg è costruito sull'infanzia e sulla giovinezza del regista di Cincinnati. Per la prima volta, dunque, Spielberg si confronta in maniera diretta con una riflessione sul cinema: sia rispetto al suo percorso individuale, sia sul suo ruolo nell'immaginario collettivo del Novecento. Più nello specifico: The Fabelmans ci dimostra come il cinema possa diventare uno strumento di conoscenza del mondo e un'indispensabile chiave di lettura della realtà. Quasi un paradosso, se si considera la reputazione di Spielberg quale cineasta dedito a celebrare il potere dell'immaginazione e la magia insita nell'esistenza umana.
Tuttavia a rendere The Fabelmans un'opera straordinaria, nonché una delle punte di diamante in una filmografia che di certo non lesina i capolavori, è anche tale aspetto: dopo quel primo 'impatto' con lo schermo attraverso Il più grande spettacolo del mondo, il sense of wonder non fa più leva sull'ingenuità né di Sammy (Mateo Zoryan da bambino, Gabriel LaBelle da ragazzo), né tantomeno del pubblico. Al contrario, la ricerca della meraviglia da parte di Sammy viene condotta nel solco di una progressiva acquisizione di consapevolezza, che Steven Spielberg e Tony Kushner sviluppano in parallelo su una molteplicità di livelli. Innanzitutto, quello teorico e tecnico sull'essenza del cinema: dal re-enactment dello scontro sui binari adoperando un trenino elettrico agli espedienti 'artigianali' (inclusi i fori sulla pellicola) usati da Sammy per girare i suoi primi cortometraggi, fino ad arrivare ai trucchi di montaggio applicati nel mini-documentario in 16 mm per la festa scolastica.
The Fabelmans, la recensione: la lettera d'amore di Steven Spielberg al cinema
Il ritratto di famiglia e lo sguardo sulla realtà
Il secondo livello è personale: prendere coscienza del fatto che il cinema non è un semplice hobby, come si ostina a definirlo suo padre Burt (Paul Dano), ma una vocazione da perseguire fino in fondo, pur sapendo, come ribadito dallo zio Boris, che "l'arte ti darà corone in cielo e allori sulla terra, ma ti spezzerà il cuore e ti lascerà da solo". È un monito che presagisce rinunce, distacchi, forse addirittura sofferenza, ma che sottrae il cinema dall'alveo di una banale idealizzazione per restituircene una dimensione ben più complessa ed autentica. E infine c'è un livello ulteriore: la macchina da presa come 'occhio' in grado di offrire una nuova prospettiva sulla realtà e, se si presta sufficiente attenzione, di decifrarla. Ed è una lezione che Steven Spielberg elabora secondo una declinazione incredibilmente intima e dolorosa: vale a dire, delineando un ritratto di famiglia in apparenza idilliaco, ma che dietro la sua gioiosa superficie cela pulsioni represse e silenziose inquietudini.
Così come è un magnifico film sul cinema, The Fabelmans è infatti pure un magnifico film sulla famiglia: sulla sua bellezza, sui sacrifici che richiede ogni giorno e sulle ferite che lascia impresse. È il messaggio più toccante dell'opera di Spielberg, che rifiuta gli approcci schematici o consolatori per aprirsi invece alla complessità del reale. Attraverso i filmini di Sammy sulle loro vacanze o sui trasbordi in giro per l'America, ci rendiamo conto - lui e noi - che l'amore tra i Fabelman non è meno sincero e profondo se in esso convivono sentimenti contrastanti e talvolta inconciliabili: quei sentimenti che affiorano sul volto di sua madre Mitzi e che si affacciano dagli sguardi luminosi o velati di lacrime di Michelle Williams. La meraviglia di The Fabelmans è anche in tali sguardi, nell'amalgama di emozioni che sprigionano per arrivare fino a noi, e nella limpidità con cui ce li racconta una doppia macchina da presa: quella di Sammy Fabelman, che attraverso il cinema sta imparando a vivere, e quella di Steven Spielberg, che dopo cinquant'anni continua ad insegnarcelo.
The Fabelmans. O di come imparammo ad amare il cinema (e Steven Spielberg)