"No davvero, seriamente... sono strambo?" "Sì, ma che vuol dire? Siamo tutti un po' strambi."
Il recentissimo successo televisivo di Stranger Things, la serie horror di Netflix che si sta conquistando legioni di fan, nonché il clamore attorno al reboot al femminile di Ghostbusters - Acchiappafantasmi, rappresentano gli esempi più lampanti di un fenomeno di portata ben più ampia: un revival degli anni Ottanta e in particolare di un certo immaginario legato al cinema americano di quel periodo, alle sue atmosfere, ai suoi temi ricorrenti e alla sua ingenuità di fondo. E fra i numerosi cult movie che hanno ispirato questo diffuso "effetto nostalgia", uno fra i più celebri e influenti compie trent'anni proprio oggi: Stand by Me - Ricordo di un'estate.
L'avventura di Gordie, Chris, Teddy e Vern, quattro ragazzi dodicenni che nel weekend del Labor Day del 1959 intraprendono una spedizione attraverso i boschi di Castle Rock, nell'Oregon, presenta del resto più di un'affinità con l'indagine condotta da Mike e dai suoi coetanei in Stranger Things, così come le dinamiche nei rapporti fra i piccoli protagonisti. E il trentennale del bellissimo film di Rob Reiner ci offre l'occasione per riscoprire i motivi per cui, ancora oggi, Stand by Me rimane uno dei più toccanti racconti di formazione - e d'amicizia - mai apparsi sul grande schermo.
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Dal racconto di Stephen King al film di Rob Reiner
La fonte letteraria di Stand by Me è Il corpo, un racconto (o piuttosto un romanzo breve) di centosessanta pagine pubblicato nel 1982 dal maestro dell'horror americano, Stephen King, all'interno della raccolta Stagioni diverse, dove l'elemento orrorifico cede il posto a una materia più realistica, ma in cui è possibile ritrovare comunque tanti aspetti da sempre cari allo scrittore. L'acuto titolo scelto da Reiner per il suo film, invece, è quello della canzone eponima di Ben E. King: un grande classico che, proprio sull'onda dell'uscita della pellicola, schizzò nuovamente in cima alle classifiche (nel Regno Unito raggiunse addirittura il primo posto) a ventisei anni di distanza dalla sua pubblicazione originaria, nel 1960. La vicenda di Stand by Me è ambientata un anno prima, nel 1959, ed è rievocata mediante un lungo flashback dal romanziere Gordie Lachance (interpretato da adulto dall'attore Richard Dreyfuss), voce narrante del racconto di King e personaggio focalizzatore della storia.
Al timone di regia, Reiner scelse di attenersi con discreta fedeltà al racconto di King e seppe far leva sulle qualità più prettamente 'cinematografiche' della novella per accentuare la portata emotiva di questo paradigmatico coming of age: il primo incontro di quattro preadolescenti con la violenza e la morte, simboleggiate dal cadavere di Ray Brower, un loro coetaneo investito da un treno (il "corpo" del titolo originale). All'epoca, il newyorkese Rob Reiner era conosciuto ai più come caratterista e per la sua partecipazione alla sit-com televisiva Arcibaldo negli anni Settanta; nel 1984 si era cimentato per la prima volta nella regia con il mockumentary musicale This Is Spinal Tap (altro futuro cult per il pubblico americano), mentre nel 1985 aveva riportato un notevole successo con la teen comedy Sacco a pelo a tre piazze, con un John Cusack non ancora ventenne. Ma solo con Stand by Me Reiner sarebbe stato consacrato fra i nuovi registi più importanti d'America: ricompensato da un trionfo al botteghino (oltre cinquanta milioni di dollari solo negli USA) e dalla nomination all'Oscar per la sceneggiatura di Brice A. Evans e Raynold Gideon, il suo terzo film resta fra le pellicole più amate dell'intero decennio, nonché fra quelle che meglio hanno saputo reggere alla prova del tempo.
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"Ragazzi, vi va di vedere un cadavere?"
Una delle ragioni principali della fortuna di Stand by Me risiede senz'altro nei suoi protagonisti: sia per l'abile disegno psicologico tracciato nelle pagine di King, sia per l'eccellente operazione di casting attuata allo scopo di trovare gli interpreti più adatti. Sono loro, infatti, a tenere la scena per i circa ottanta minuti di durata del film: quattro comunissimi adolescenti, ciascuno con le sue fragilità e i suoi problemi, che decidono di inoltrarsi nel bosco, lungo il percorso della ferrovia, dopo aver saputo che da qualche parte fra gli alberi giace il corpo senza vita di Ray Brower. Nessuno di loro ha mai visto un cadavere e ritrovarlo potrebbe voler dire ricevere da parte della comunità l'attenzione e la fama cui aspirano. Questo spunto 'macabro' diventa così il motore di una sorta di rituale di passaggio ambientato all'interno di una foresta, luogo simbolico del viaggio, dello smarrimento, del confronto con l'ignoto e della scoperta di sé.
Gordie Lachance, il ragazzo intelligente e sensibile tormentato dal lutto per la perdita dell'amato fratello maggiore Denny (John Cusack), trascurato dai genitori e dotato di una fervida fantasia, ha il viso dell'attore Wil Wheaton, che si sarebbe distinto in seguito nella serie Star Trek: The Next Generation. Corey Feldman (già ne I Goonies) è Teddy Duchamp, segnato da una turbolenta situazione familiare, l'esordiente Jerry O'Connell è il simpatico e impacciato Vern Tessio, mentre la parte di Chris Chambers, coraggioso e tormentato, vero collante del gruppo nonché fedele sostegno per l'amico Gordie, è affidata a un River Phoenix appena quindicenne, al suo secondo film. Altro futuro volto noto del cinema è quello di Kiefer Sutherland, a cui Reiner fece impersonare la 'nemesi' dei quattro protagonisti: Asso Merrill, teppista a capo di una gang locale, il quale fin dall'inizio riversa le proprie angherie sui ragazzi più piccoli.
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Ragazzi interrotti
L'abilità di Rob Reiner sta anche e soprattutto qui: nel saper trarre il meglio da questo manipolo di attori in erba, descrivendo in maniera del tutto credibile le loro interazioni e portandone a galla i sentimenti complessi e spesso contraddittori. Nel film, naturalmente, non mancano sequenze cariche di tensione, come la folle corsa sui binari durante il passaggio del treno; gli episodi in cui il senso di minaccia è mitigato da un sottofondo umoristico, quali la fuga forsennata dal cane di Milo Pressman e il bagno nel laghetto popolato da sanguisughe; e perfino una divertente parentesi metanarrativa, ovvero il racconto della disgustosa 'vendetta' di Davie Hogan durante una gara a base di crostate di mirtilli. Eppure è nelle pause dall'azione, nei momenti in apparenza più intimi e dimessi, che Stand by Me spicca il volo e tocca vette di rara emozione. In particolare quando si tratta di esplorare il rapporto fra Gordie e Chris.
Gordie è il dodicenne malinconico che rimpiange di non essere all'altezza del fratello scomparso, Chris è un emarginato bollato come bad boy ma contraddistinto invece da una bontà smisurata. Due coetanei che nell'affetto provato l'uno per l'altro trovano un appiglio per affrontare le rispettive debolezze; e non è un caso se le scene migliori del film corrispondono proprio ai dialoghi fra loro due. Quando Gordie sembra precipitare nella sua consueta insicurezza, a dispetto dell'atteggiamento protettivo di Chris, la replica di quest'ultimo esprime tutta la maturità e l'irruenta generosità del personaggio: "Magari fossi tuo padre! Non andresti in giro a parlare di fare quelle stupide scuole tecniche, se fossi tuo padre. È come se Dio ti avesse dato qualcosa. Tutte quelle storie che ti vengono in mente... Dio ha detto: 'Questa è roba tua, cerca di non sprecarla'. Ma i ragazzini sprecano tutto, se non c'è qualcuno che li tiene d'occhio. E se i tuoi vecchi sono troppo incasinati per farlo, dovrei farlo io forse!".
L'amicizia a dodici anni
L'intensità di River Phoenix, nonostante la sua limitata esperienza di attore, lascia a dir poco sbalorditi, mostrando già quel talento cristallino che sarebbe stato stroncato in maniera tragicamente precoce. Più avanti, nel film, a ruoli invertiti, sarà Gordie a consolare Chris durante una sua crisi, in una scena che ad ogni visione, puntualmente, riesce a strapparci un pezzetto di cuore: quando il ragazzo confessa di aver compiuto un piccolo furto, salvo poi essere stato ingannato dalla sua insegnante, che l'ha usato come capro espiatorio. "Vorrei solo... poter andare in un posto dove nessuno mi conosce!", grida Chris a conclusione del suo sfogo, prima di scoppiare in un pianto dirotto trovando conforto nell'abbraccio di Gordie. Perché quello di Stand by Me, in linea con la poetica di King, è un mondo in cui gli adulti sono assenti, inaffidabili o, peggio ancora, matrice di sofferenza. E allora il fondamento irrinunciabile del coming of age si rivela essere l'amicizia, il valore celebrato dal film di Reiner al di sopra di ogni difficoltà, delusione o dolore tenuti in serbo dall'esistenza. Un valore sintetizzato nella frase ormai proverbiale che, in chiusura, funge da perfetto suggello alla pellicola: "Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a dodici anni. Gesù, ma chi li ha?".
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