Recensione The Words (2012)

Il raffinato intarsio narrativo - in cui si intrecciano, seguendo un intricato gioco di parallelismi e corrispondenze, il presente con il passato, la fiction con la realtà - rappresenta il cardine su cui ruota l'architettura filmica di The Words, costituendo paradossalmente il principale pregio del film, ma anche il suo limite.

La vita segreta delle parole

Quando leggiamo un libro, solitamente siamo portati a concepire il testo e l'autore come due unità ben distinte e, nella maggior parte dei casi, non ci curiamo troppo delle condizioni personali e delle particolari vicissitudini che hanno portato un determinano scrittore a realizzare l'opera che ci troviamo tra le mani. I semiotici direbbero, invece, che l'autore è sempre dentro al testo, e che queste due entità sono così strettamente interrelate al punto che non è possibile distinguerle in maniera netta. In un certo senso l'esordio al lungometraggio di Brian Klugman e Lee Sternthal, dall'emblematico titolo The Words, porta alle estreme conseguenze questo concetto, mettendo in scena un'elaborata - e forse un po' troppo artificiosa - rappresentazione del processo creativo e dell'ispirazione artistica, focalizzandosi su alcune questioni fondamentali che da sempre hanno fatto arrovellare studiosi e teorici, in particolare l'inestricabile rapporto che sussiste tra arte e vita, tra verità e finzione. L'espediente narrativo scelto dalla coppia di registi e sceneggiatori non è certo nuovo, anzi costituisce una modalità di racconto presente sin agli albori della letteratura (più o meno dall'Odissea in poi...), vale a dire il meccanismo definito "a scatole cinesi" in cui una storia è contenuta dentro un'altra storia, e così via.


In the Words, infatti, sono racchiusi almeno tre diversi livelli di narrazione (o di "mise en abyme", come amano dire sempre i semiologi): il film esordisce con un acclamato autore di best seller, Clay Hammond (Dennis Quaid), il quale legge a un auditorio entusiasta la sua nuova opera (che si intitola per l'appunto The Words). Quasi subito si materializza di fronte allo spettatore il contenuto del libro (che costituisce il secondo piano di racconto): questo è incentrato sull'aspirante scrittore Rory Jansen (Bradley Cooper), in crisi perché privo del talento necessario per sfondare nel mondo letterario. In viaggio di nozze a Parigi con la moglie Dora (Zoe Saldana), Jansen rinviene una vecchia valigetta in cui è contenuto un dattiloscritto risalente alla fine della Seconda guerra mondiale, che si rivela dotato di una straordinaria intensità e bellezza. Una notte, come ipnotizzato, Rory trascrive interamente il testo originale, inizialmente solo per sentire l'essenza di quelle meravigliose parole scorrere dentro di lui. Ma, per una serie di circostanze, finisce per pubblicare l'opera, che lo consacra come uno degli scrittori più affermati e ammirati della sua epoca. Il terzo "racconto nel racconto", invece, sopraggiunge quando un uomo molto anziano (Jeremy Irons) si manifesta a Rory, rivelandogli di essere l'autore dello scritto e raccontandogli le tragiche circostanze che lo hanno indotto a generarlo.

Il raffinato intarsio narrativo - in cui si intrecciano, seguendo un intricato gioco di parallelismi e corrispondenze, il presente con il passato, la fiction con la realtà - rappresenta il cardine su cui ruota l'architettura filmica di The Words, costituendo paradossalmente il principale pregio del film, ma anche il suo insormontabile limite. Perché Klugman e Sternthal elaborano una struttura talmente ricercata e complessa da risultare eccessivamente cerebrale e lambiccata, lasciando così venir meno l'empatia per i personaggi e la partecipazione nei confronti degli eventi raccontati. Per di più, nel trasporre le pagine letterarie in immagini cinematografiche, gli autori fanno affidamento quasi esclusivamente alla voce fuori campo del narratore - accompagnata sovente da un'invasiva colonna sonora a base di archi - che restituisce così a una rappresentazione troppo statica e fredda.
Fortuna che a salvare in parte l'esito del film accorrono in aiuto le doti di un solido cast (e non potrebbe essere altrimenti, visto che la recitazione assume una valenza fondamentale in un'opera del genere). Inutile dire che, sopra tutti, svetta inarrivabile Jeremy Irons, seppure qui sacrificato in una parte limitata ma fondamentale ai fini della storia. Notevole anche Dennis Quaid nelle vesti di uno scrittore sornione e carismatico; mentre Bradley Cooper pecca ancora di eccessiva inesperienza nel gestire sfumature recitative troppo complesse. A un ruolo di contorno sono, invece, relegate le pur brave e affascinanti controparti femminili dei diversi racconti, costituite rispettivamente da Olivia Wilde, Zoe Saldana e Nora Arnezeder.