E se trovi il modo di vivere senza servire un maestro, qualunque maestro, allora vieni qui a raccontarcelo, va bene? Perché saresti la prima persona nella storia del mondo.
È lecito chiedersi se - e quando - Paul Thomas Anderson si sia posto la domanda che il Lancaster Dodd di Philip Seymour Hoffman rivolgeva, in tono sprezzante e beffardo, al Freddie Quell di Joaquin Phoenix. A che punto della propria carriera il regista e sceneggiatore californiano abbia provato il coraggio, l'avventatezza, perfino la hybris di Freddie Quell, abbandonando il sentiero tracciato dai grandi modelli della sua formazione per avventurarsi invece in territori inesplorati, realizzando qualcosa che non sembra avere eguali nel panorama del cinema degli ultimi due decenni. Diventando lui stesso, come recita il titolo di uno dei suoi film più celebrati, un maestro.
Un enfant prodige all'ombra di Altman e Scorsese
Perché probabilmente nessuno, fra i cineasti americani giunti alla ribalta intorno al passaggio del millennio, può vantare la statura artistica, la profondità di sguardo e l'impressionante sicurezza di Paul Thomas Anderson: da quando era un esordiente appena uscito dal Sundance Institute a un quarto di secolo di distanza, con otto lungometraggi alle spalle insieme a un'ampia serie di cortometraggi e di video musicali. Nato a Los Angeles il 26 giugno 1970, Paul Thomas Anderson è passato dall'essere l'enfant prodige della scena indipendente di metà anni Novanta a trasformare il proprio stile da un film all'altro, rifiutando qualunque comfort zone in favore di una versatilità e di un'ambizione che, in barba alle iperboli, lo rendono fra gli odierni registi forse il più prossimo a Stanley Kubrick.
Eppure, Paul Thomas Anderson si è fatto conoscere, perlomeno nei suoi primi anni di carriera, proprio in quanto ideale 'allievo' di alcuni fra i massimi talenti di una o anche due generazioni prima della sua. Un paio di nomi su tutti: Martin Scorsese e Robert Altman. A venticinque anni, sviluppando un suo cortometraggio del 1993 dal titolo Cigarettes & Coffe, Anderson scrive e dirige il proprio film d'esordio, Sydney, proiettato al Sundance nel gennaio 1996 e pochi mesi più tardi al Festival di Cannes, nella sezione Un certain regard (l'anno dopo sarebbe approdato nelle sale americane come Hard Eight): il mondo del gioco d'azzardo, i casinò del Nevada e gli antieroi crepuscolari, ovvero gli ingredienti adoperati in Sydney, derivano direttamente dal cinema della New Hollywood e da gran parte della filmografia scorsesiana.
Da Il filo nascosto a Magnolia: il cinema di Paul Thomas Anderson in 8 grandi sequenze
Stilisti, petrolieri e pornostar: affreschi di variegata umanità
L'influenza di Martin Scorsese appare ancor più evidente nella sua opera seconda, Boogie Nights, a partire da un incipit tutto in piano sequenza (l'ingresso in un night club di Los Angeles) che rivaleggia a testa alta con il long take di Quei bravi ragazzi. Solo che Anderson evita i citazionismi e non si limita alle 'copie' o all'omaggio: in Boogie Nights dimostra di aver assimilato la lezione di Scorsese (nel ritmo, nel respiro del racconto, nella magistrale rappresentazione della frenesia e della violenza), ma filtrandola attraverso Quentin Tarantino, Pulp Fiction e le nuove istanze del cinema americano degli anni Novanta. A partire da un'ironia amarissima, ma che non sconfina mai nel cinismo: Anderson non ridicolizza i suoi personaggi, neppure quando si comportano in maniera ridicola; non li osserva dall'alto ma si pone al loro fianco, senza ignorarne l'umanità spesso contraddittoria.
Vale per il gambler Sydney di Philip Baker Hall e per il complessato Barry Egan, interpretato da Adam Sandler in Ubriaco d'amore (ad oggi, l'unica incursione del regista nel campo della commedia romantica); per protagonisti oscuri e tormentati come Daniel Plainview, Freddie Quell e Reynolds Woodcock, ma anche per gli innumerevoli comprimari che popolano i drammi corali diretti da Anderson nella prima fase della sua carriera. Appartengono a quest'ultima categoria le figure che animano il sottobosco dell'industria del porno in Boogie Nights: dall'astro nascente Eddie Adams (alias Dirk Diggler) di Mark Wahlberg alla Amber Waves di Julianne Moore, dalla Rollergirl di Heather Graham a Scotty J., il fonico omosessuale con il volto di Philip Seymour Hoffman. Di ciascuno di essi (e di molti altri) Anderson fa emergere sogni, fragilità e debolezze, senza ridurli a stereotipi né adottando una prospettiva moralistica e giudicante.
Paul Thomas Anderson, vizi e forme d'autore
America oggi: piovono rane su Los Angeles
La pietas già riscontrabile in Boogie Nights si fa ancora più evidente nella terza prova dietro la cinepresa di Paul Thomas Anderson, Magnolia, che nel 1999 offre la definitiva conferma della sua capacità di gestire una fitta rete di trame e personaggi e gli vale l'Orso d'Oro al Festival di Berlino. Con tre ore di durata e almeno una ventina di comprimari, le cui esistenze si intrecciano nell'arco di una fatidica serata nella cornice della San Fernando Valley, Magnolia è il più altmaniano dei film di Anderson, quasi una sua versione di America oggi. E mentre nel capolavoro di Robert Altman la 'scossa' narrativa corrispondeva a una vera e propria scossa di terremoto, Anderson fa precedere l'epilogo da un'autentica piaga biblica: l'apocalittica pioggia di rane dopo la quale i personaggi troveranno la propria redenzione o, più semplicemente, un barlume di solidarietà e di conforto nel mare magnum della loro sofferenza.
Magnolia costituisce in sostanza il confronto dell'allievo con il maestro (nel 2006, fra l'altro, Anderson sarà chiamato al fianco dell'ottantenne Robert Altman sul set del suo ultimo film, Radio America): un confronto sostenuto a testa alta e replicato, almeno in parte, nel 2014, quando Anderson si cimenterà invece con i codici del neo-noir e con una dissacrante rivisitazione del filone hard-boiled, sull'esempio dell'Altman de Il lungo addio, con un'altra detective story ambientata nella Los Angeles degli anni Settanta. Ma Vizio di forma, adattamento dell'omonimo romanzo di Thomas Pynchon, è comunque un film impregnato di quello spirito postmodernista mutuato dalla fonte letteraria: e così l'indagine di Doc Sportello, lo stralunato detective marlowiano di Joaquin Phoenix, diventa l'occasione per un viaggio dentro un microcosmo allucinato e labirintico, in un'atmosfera sospesa fra umorismo e malinconia.
Un mondo dentro un sogno: viaggio nelle complessità di Vizio di forma
Lati oscuri e cattivi maestri
Ma fra il Paul Thomas Anderson altmaniano di fine millennio e quello postmodernista di Vizio di forma si verifica una cesura fondamentale: l'emancipazione dai modelli del passato e la svolta verso un cinema unico e personalissimo, volto a una riflessione sull'America, la sua storia e i suoi lati oscuri. È il cinema, poderoso e fuori dal tempo, che trova piena espressione in un dittico di film straordinari: Il petroliere, Orso d'Argento al Festival di Berlino 2008, e The Master, Leone d'Argento al Festival di Venezia 2012. Il primo, che riadatta parte del romanzo Petrolio! di Upton Sinclair, è un ritratto del capitalismo vissuto come sfrenato superomismo e ossessione mortifera; il secondo, ispirato alla nascita della pseudoscienza e di Scientology, indaga la relazione vampiristica fra il veterano psicotico Freddie Quell e Lancaster Dodd, leader di un movimento filosofico-spirituale denominato "la Causa".
Il desiderio di autodeterminazione e di affermazione di un individuo contrapposto alla dipendenza (o alla sudditanza psicologica) rispetto a un 'maestro' (o a un amante): è il conflitto alla radice de Il petroliere e di The Master, ma che in fondo percorre quasi tutta l'opera di Anderson. Sydney farà da mentore allo sprovveduto John Finnegan di John C. Reilly, così come l'Eddie Adams di Boogie Nights scoprirà una figura paterna e una guida al successo nel Jack Horner di Burt Reynolds; il Frank Mackey di Tom Cruise in Magnolia è il guru pronto a fornire facili risposte alle insicurezze maschili, mentre il petroliere Daniel Plainview, a cui dà vita con una prova da Oscar un gigantesco Daniel Day-Lewis, scoprirà un degno avversario nel giovane Eli Sunday di Paul Dano, autoproclamato leader della Chiesa della Terza Rivelazione in una piccola comunità rurale della California.
Il filo nascosto e The Master: simmetrie e contrasti di due capolavori allo specchio
Un cinema di magnifiche, mostruose ossessioni
Plainview, tirannico magnate paragonabile al Charles Foster Kane di Quarto potere, scende a patti con l'odiato Eli per puro (e reciproco) opportunismo; al contrario Freddie Quell, i cui impulsi autodistruttivi sono incarnati da un mostruoso Joaquin Phoenix, si abbandona anima e corpo all'ambiguo carisma di Lancaster Dodd, salvo infine sfuggire al controllo del proprio maestro. Ma perfino l'amore può sfociare in un perverso rapporto di potere, in cui i rispettivi ruoli si confondono e si capovolgono. È il sentimento malato che unisce l'Alma Elson di Vicky Krieps allo stilista Reynolds Woodcock di Daniel Day-Lewis ne Il filo nascosto, datato 2017: un film la cui eleganza ieratica, lontana da qualunque accademismo, fa da corrispettivo all'anelito di perfezione del protagonista.
Non si tratta solo di una cifra stilistica, che Anderson è andato affinando da un film all'altro, ma di una dichiarazione di poetica: dalle rutilanti gallerie di personaggi di Boogie Nights, Magnolia e Vizio di forma, con il loro caos orchestrato con precisione geometrica, alla solennità, la forza espressiva, il senso di dramma o di tragedia che sembrano pervadere ogni inquadratura de Il petroliere, The Master e Il filo nascosto, e che riecheggiano in ogni nota delle partiture musicali composte da Jonny Greenwood. Paul Thomas Anderson può permettersi di vivere senza un maestro perché oggi il suo cinema ha assunto la solidità dei classici, eppure non potrebbe essere più libero e ardito. E perché nessun altro come lui riesce a dare forma, corpo e voce alle ossessioni, magnifiche e mostruose, della Storia così come di un singolo essere umano.
Il filo nascosto: amore e ossessione nell'ultimo capolavoro di Paul Thomas Anderson