E' a Milano già da qualche giorno per introdurre e commentare i film che hanno sancito le tappe più significative della sua lunga e eterogenea carriera, ma abbiamo dovuto aspettare sabato perché Jonathan Demme potesse rispondere a tutte le curiosità di un pubblico affezionato e partecipe, e di un Luca Guadagnino orgoglioso moderatore della discussione, con cui, durante le quasi due ore della sua masterclass (e non lezione, perché "siamo tutti qui per imparare qualcosa"), ha riflettuto sul futuro del cinema, e sul percorso intenso e non privo di imprevisti che lo ha portato ad essere l'artista che oggi è.
Perché, nei suoi piani originari, Jonathan Demme il regista nemmeno lo voleva fare: sotto l'ala protettiva di Roger Corman muoveva i primi passi dell'ambito della produzione cinematografica, e quando lui, quasi per scherzo, gli chiese se non avesse per caso voglia di cimentarsi in una sceneggiatura, il giovane Demme non se lo fece certo ripetere due volte. A sentire lui, il risultato fu tutt'altro che incoraggiante, ma l'entusiasmo e la voglia di fare che lo avevano coinvolto in quelle prime tre settimane da regista non lo abbandonarono più, e gli insegnarono forse la lezione più importante che un aspirante deve tenere presente: non aspettare, come lui, che qualcuno ti offra un'occasione per esprimerti, ma prendi una telecamera e inizia a filmare. "Magari, dieci anni dopo, farai Io sono l'amore", scherza il regista americano, ironizzando sul salto nel buio tentato da Guadagnino con i suoi primi documentari e culminato con il successo internazionale. Allo stesso modo, a chi gli chiede un consiglio sulla figura migliore a cui rivolgersi per vedere realizzata la propria idea, Demme risponde che non c'è studio di produzione o agente che tenga, il primo a dover credere nel proprio lavoro è chi lo ha pensato, e non c'è modo più serio di crederci che farlo. Dappertutto le scrivanie sono piene di pile altissime di sceneggiature che nessuno leggerà mai, e nessuno vuole che la sua faccia la stessa fine, senza contare che ogni figura a cui il tuo progetto verrà sottoposto vorrà filtrarla secondo i propri interessi, a volte fino al punto di snaturarla.
Lo sa bene Demme, che ha sempre voluto mantenere un approccio flessibile alla cinematografia, firmando grandi progetti, debitori di importanti investimenti economici, ma anche piccole produzioni indipendenti, nel tentativo costante di utilizzare i mezzi e gli strumenti adeguati all'idea da trasmettere. "La mia teoria è cercare di fare sempre il meglio, sperando che quello che entusiasma me entusiasmi allo stesso modo anche gli altri", dichiara il regista, ammettendo allo stesso tempo che le cose che risvegliano la sua passione non si limitano alla settima arte, ma includono a pari merito anche la musica: i suoi primi ricordi si dividono equamente tra la visione estatica della sparatorie tra cowboy in tv e l'ascolto, quasi religioso, di Nat King Cole alla radio. "Filmare musica live è l'espressione più pura del realizzare film, per me, perché le due cose diventano una cosa sola": una dichiarazione che stuzzica le domande dei fan di Neil Young, che interpellano il regista su future ulteriori collaborazioni con il cantante canadese. E Demme non li priva di soddisfazione: "Anche a costo di risultare ridondante, mi piacerebbe collaborare ancora con lui. E' molto cinematografico, e c'è un così grande rispetto reciproco che lavorare con lui non mi stanca mai. In più è un grande narratore, e molti mi hanno chiesto se non sarebbe una buona idea realizzare un film prendendo ad ispirazione una delle sue canzoni, e credo che sia una strada da tenere in considerazione". Come sottolinea Guadagnino, l'approccio di Demme agli strumenti e alle storie da raccontare non è mai stato ieratico, inquadrato in schemi predefiniti, e il regista statunitense commenta questa affermazione chiamando in causa la propria volontà di focalizzarsi in primo luogo sulla storia e suoi personaggi. In Qualcosa di travolgente, ad esempio, ricorda come fosse la sceneggiatura stessa ad essere svincolata da ogni definizione di genere: la sua forza era il continuo cambiamento di tono, che ricalca quello della vita, che offre giorni comici e giorni tragici, diventa violenta, romantica, triste, ed è fondamentale restituire questa verità. Allo stesso modo, anche i protagonisti della storia devono essere talmente forti da far dimenticare al pubblico ogni classificazione: il primo esempio che viene in mente non può che essere Il silenzio degli innocenti, eppure lo stesso Demme all'inizio non l'aveva immaginato così come tutti ora lo conosciamo. In primis per la protagonista: Jodie Foster non gli sembrava abbastanza forte da sostenere un ruolo così complesso e profondo, e la prima scelta del regista era ricaduta su Michelle Pfeiffer, con cui aveva da poco lavorato in Una vedova allegra... Ma non troppo. La stessa Michelle però, rifiutò la parte perché troppo oscura, e così Demme concesse una possibilità alla Foster: "Jodie voleva quella parte disperatamente. Mi descrisse il film come la storia di una donna che fa tutto quello che deve fare per salvarne un'altra, ed è proprio con questa interpretazione, cioè che il film non fosse un film sul dottor Lecter, che mi ha convinto di essere quella giusta. Lei è stata la scelta migliore possibile proprio perché aveva una motivazione speciale.". E non è stata questa l'unica occasione in cui il regista si è dovuto ricredere sulla propria protagonista: ad esempio, per Una volta ho incontrato un miliardario, Demme voleva Teri Garr per il ruolo di Lynda. I produttori, nel frattempo, spingevano perché scegliesse Theresa Russell, mentre Mike Nichols, che supervisionava la sceneggiatura, insisteva nel proporre Mary Steenburgen. "Abbiamo fatto un'audizione a tutte e tre, ma è stato subito evidente che era Mary quella ad avere una vera connessione con il personaggio. Uno dei momenti più belli di questo lavoro è quando hai torto", dichiara il regista. Cambiare idea è fondamentale quando ci si trova di fronte alla persona giusta per un ruolo, specie tenendo in considerazione il modo in cui il regista lavora con gli attori: "Mi piace che i miei protagonisti si prendano le proprie responsabilità, apportino le loro idee alla creazione del personaggio. Una volta mi sono trovato in grossa difficoltà, quando Candy Clark, che recitava in Handle with Care, non riusciva a fare una scena perché non riusciva a capire come mai il suo personaggio avrebbe dovuto comportarsi in quel modo. Sono momenti duri, perché io credo che il regista debba servire l'attore, creare la giusta atmosfera per farlo esprimere, ma non diventare uno psicologo. Tutto quello che c'è da sapere sul personaggio è nella sceneggiatura". "Come disse Alfred Hitchcock alla Tippi Hedren in difficoltà con Marnie, 'sei un'attrice, recita!'", chiosa Guadagnino, dando l'opportunità a Demme di esternare la propria volontà di lasciare anche una giusta dose di libertà all'interprete. Per Rachel sta per sposarsi, nonostante la fiducia nella sceneggiatura e il proposito di usare il più possibile quei dialoghi, il regista ha dato libero sfogo alla creatività degli attori: "Declan Quinn, che curava le riprese, doveva comportarsi come se fossimo in un documentario: filmare tutto, seguire sempre gli attori. Non abbiamo avuto due scene uguali l'una all'altra, abbiamo provato e riprovato continuamente. La sceneggiatura è qualcosa da trattare con rispetto, ma non deve farti sentire come in una prigione".Merito della buona riuscita dell'impresa è senz'altro anche di una Anne Hathaway in stato di grazia: è altrettanto vero che lo stesso Demme pone sempre una cura particolare nei suoi personaggi femminili, memore delle donne della sua famiglia, due vere forze della natura nei suoi ricordi, specie la madre che, scopertasi incinta, riuscì ad uscire dalla dipendenza dall'alcool unicamente grazie alla propria forza di volontà. "Sono sempre andato pazzo per le storie e i film sulle donne. Il genere femminile è indubbiamente svantaggiato ancora oggi: le donne competono tra di loro, e competono con gli uomini. Siamo in una società patriarcale, e proprio per questo rispetto di più una donna che fa la stessa cosa che fa un uomo, in confronto alla controparte maschile, perché per lei è più dura ottenere quello che vuole". Ma prima ancora delle problematiche sociali, è stato un impulso molto più primitivo e fisico ad avvicinare Demme all'universo femminile: "Ho questo ricordo di me a cinque, sette anni, che guardavo continuamente King Kong. Mi piacevano le scene con il mostro, ovviamente, ma non posso dimenticare la fascinazione che avevo per quella in cui Ann esce dall'acqua, con il vestito appiccicato addosso! E poi ci sono state Brigitte Bardot, Marilyn Monroe, Sophia Loren... Quindi non posso negare che il mio primissimo impulso nei confronti delle donne sia stato puramente sessuale". Ovviamente, negli anni la sensibilità del regista si è affinata, portandolo, come ricorda Luca Guadagnino, a tracciare ritratti di donne forti, moderne e padrone di se stesse, come testimonia il personaggio di Lynda, che il regista immortala senza vestiti non quando lavorava come spogliarellista, ma nel momento in cui si licenzia, dimostrando così di essere lei ad avere il controllo del proprio corpo. Per il regista italiano, questo è un episodio che esemplifica evidentemente la volontà di Demme di ritrarre
sempre la verità, e la vita autentica di un momento storico, nonché l'occasione per parlare della sua visione del presente. "La verità è che la difficoltà della vita è vivere, è sempre stato così e lo è tuttora. Vedere nel mio Paese tanta gente che lavora duro, ma a cui non viene riconosciuto niente, è sconfortante, ma l'unica cosa da fare è continuare ad accumulare esperienze, a reinventare sempre te stesso".Per Demme, è proprio il cambiamento il vero fulcro di qualsiasi narrazione: senza cambiamento non c'è storia, ed è quello su cui ci si deve focalizzare, non solo quando si tratta di un cambiamento positivo, ma anche quando porta con sé la tragedia. Come nel caso di I'm Carolyn Parker: The Good, The Mad and The Beautiful, in cui il regista ha avuto l'occasione di testimoniare emozioni di lacerante intensità, di cui ci descrive la difficoltà di traduzione in immagini: "A New Orleans ho avuto solo pochi giorni per girare, ma il momento più duro è stato tornare da Carolyn senza telecamere: non sapevo come comportarmi con lei senza quel filtro. Però ho filmato materiale per realizzare, potenzialmente, altri tre film. E' che quando trovi qualcosa di interessante da filmare, filmeresti per sempre".
Questa spinta "onnivora" nei confronti della realtà non si traduce però in un'approssimazione formale, anzi Demme non si risparmia sul lato della sperimentazione, che lo ha portato a dare vita ad uno dei suoi marchi di fabbrica, ovvero la rottura della convenzione per cui l'attore non deve mai guardare in camera. "Avevo notato che nei film di Hitchcock, o anche di Fuller, c'erano dei momenti in cui gli attori guardavano, per un istante, in camera. Quel momento mi dava sempre un'emozione particolare, e dopo un po' ho capito perché lo facevano: per mettere davvero lo spettatore nei panni del personaggio. Quale miglior terreno di sperimentazione de Il silenzio degli innocenti, che era un film tutto incentrato su personaggi che si entrano in testa a vicenda? Per gli attori è difficilissimo recitare guardando in camera, perché alla fine non è nient'altro che una macchina in cui si vede anche in parte il proprio riflesso, ma i grandi interpreti che avevo a disposizione ce l'hanno fatta, e il risultato ha funzionato perfettamente. Il fatto che nessuna recensione citasse questa stranezza lo testimonia: è un espediente che risulta invisibile perché non artificioso, ma adatto alla situazione". Un altro momento di riferimento per la formazione di Demme è stato l'incontro con Bernardo Bertolucci, che nel corso di un soggiorno newyorkese lo incentivò a mettersi alla prova con dei lunghi piani sequenza. Ironia della sorte, quando Demme gli mostrò il risultato, Bertolucci si complimentò, ma consigliandogli di tagliare un po' le scene. La collaborazione con il regista italiano è ricordata da Demme come uno dei momenti più esaltanti del suo percorso, e proprio per questo è tanto alta l'attesa per il nuovo film a cui Bertolucci sta lavorando.Ma altrettanto promettenti sono i due progetti che vedono impegnato Jonathan Demme, e che rappresentano entrambi una nuova tappa nel cammino di esperienze maturato dal regista. Il primo è un'incursione nell'universo televisivo, con il pilot di A Gifted Man, storia di un egocentrico neurochirurgo, interpretato da Patrick Wilson, che avrà a che fare con il fantasma dell'ex-moglie, intenzionato a guidarlo nelle sue future scelte di vita. E' però soprattutto su Zeitoun, tratto dallo splendido libro di Dave Eggers, che si concentra la curiosità del pubblico, e non soltanto per la potenza della vicenda, incentrata sul siriano Abdulrahman Zeitoun che, insieme a un manipolo di amici, sfidò l'uragano Katrina sulla propria canoa per portare aiuto alla popolazione, e sulle surreali conseguenze del suo gesto, ma anche perché rappresenta il primo viaggio di Demme nel mondo dell'animazione. Ma la platea milanese non ha dubbi nell'accordare fiducia al regista statunitense, certa che l'entusiasmo con cui parla dei suoi nuovi impegni sia garanzia di un risultato ancora una volta capace di lasciare il segno nella storia del cinema.