Il 2025, punto d'arrivo del primo quarto del nostro secolo, costituisce l'anno ideale - numericamente parlando - per una rinnovata riflessione sul nuovo canone artistico e culturale della contemporaneità. Il New York Times, testata di punta del panorama intellettuale americano, si era già adoperato nell'estate 2024 con una classifica dei cento migliori libri pubblicati a partire dal 2000: una lista in cui la narrativa anglofona occupava una posizione preminente, riservando i gradini più alti agli statunitensi Isabel Wilkerson, Edward P. Jones, Jonathan Franzen, Colson Whitehead e Marilynne Robinson e ai britannici Hilary Mantel e Kazuo Ishiguro, ma con un inaspettato primo posto per L'amica geniale di Elena Ferrante. A un anno di distanza, ecco arrivare anche la classifica dei cento migliori film del ventunesimo secolo secondo il New York Times, sulla cui vetta batte bandiera sudcoreana: Parasite di Bong Joon-ho.
I migliori film del secolo, da Wong Kar-wai e David Lynch a Bong Joon-ho

Non sorprenderà che, in questo elenco di cento titoli, al cinema americano sia riservato un posto di assoluto rilievo, soprattutto tenendo conto delle modalità di compilazione della classifica: a esprimere le loro preferenze sono stati oltre cinquecento addetti ai lavori che però, al di là di qualche grande nome della scena internazionale (come Pedro Almodóvar), sembrano appartenere in netta prevalenza all'industria hollywoodiana (fra i votanti più illustri figurano Julianne Moore, Guillermo del Toro, Mel Brooks, Sofia Coppola, Barry Jenkins, Todd Field e lo scrittore Stephen King). Di conseguenza, andando a scorrere la Top 10 della classifica si incontrano degli incontestabili instant classic del moderno cinema a stelle e strisce, come The Social Network (decimo), Scappa - Get Out (ottavo), Se mi lasci ti cancello (settimo), Non è un paese per vecchi (sesto) e Moonlight (quinto).

Al di fuori dei confini statunitensi, fra questi titoli compaiono due capolavori del cinema asiatico di inizio millennio: al nono posto La città incantata di Hayao Miyazaki e al quarto posto In the Mood for Love di Wong Kar-wai, pietre miliari entrate da più di vent'anni nell'immaginario della settima arte a ogni latitudine del globo. E non stupiscono certo i due film situati sui gradini inferiori del podio: Il petroliere di Paul Thomas Anderson (terzo posto) è considerato un'opera essenziale sullo spirito e le contraddizioni di un'America legata a doppio filo alle brutali leggi del capitalismo, mentre Mulholland Drive di David Lynch (secondo posto) resta un modello insuperato nell'ottica di una rivoluzione del linguaggio filmico, una presenza inossidabile in tutte le classifiche analoghe degli scorsi venticinque anni. Una presenza che tuttavia, per il New York Times, è stata superata dal thriller dai toni satirici realizzato nel 2019 dall'autore coreano Bong Joon-ho.
Dalla Corea agli Oscar: analisi di un fenomeno senza confini

Oggetto di un immediato plebiscito fin dalla sua presentazione al Festival di Cannes, dove era stato insignito della Palma d'Oro, Parasite era stato oggetto di un frenetico passaparola che, da lì in poi, lo avrebbe portato a registrare un ampio successo al box-office (oltre trenta milioni di spettatori) e a fare incetta di trofei, fino ad aggiudicarsi quattro premi Oscar: miglior regia, miglior sceneggiatura originale, miglior film internazionale e infine miglior film, facendo sì che per la prima volta il massimo riconoscimento di Hollywood fosse tributato non solo a una pellicola di produzione straniera, ma recitata in una lingua diversa dall'inglese. Un risultato a suo modo storico, e già indicativo dell'impatto esercitato dall'opera di Bong Joon-ho su un pubblico trasversale e che, in molti casi, non si era mai approcciato con tale entusiasmo a un film originario dell'estremo Oriente.

Quando è trascorso poco più di un lustro da un fenomeno di tali proporzioni, cosa ha portato Parasite a superare in così breve tempo titoli già radicati da circa vent'anni nell'immaginario del ventunesimo secolo, quali appunto Mulholland Drive, Il petroliere e In the Mood for Love? Una prima ragione potrebbe risiedere nell'evidente 'accessibilità' di Parasite: se altri occupanti della classifica sono profondamente connessi con il proprio sistema culturale di appartenenza (si pensi alla specificità del cinema di Wong Kar-wai e di Hayao Miyazaki, ma pure de La tigre e il dragone di Ang Lee, di Una separazione di Asghar Farhadi o di Yi Yi di Edward Yang), Parasite risulta un film senz'altro sofisticato dal punto di vista della commistione dei generi (il dramma, il thriller, la black comedy), ma al contempo di facile lettura anche per spettatori che non conoscessero nient'altro della produzione del suo autore, né del cinema coreano in generale.
Ricchi contro poveri in un grande film sulla nostra epoca

Se il linguaggio stratificato ma accessibile è da annoverare dunque fra i motivi del successo di Parasite, un aspetto forse ancora più importante per la sua straordinaria canonizzazione è costituito dall'universalità del racconto al cuore della trama. Parlando per semplificazioni, Parasite è la storia di una complessa convivenza fra ricchi e poveri, imperniata sulle relazioni sempre più ambigue e conflittuali tra la famiglia Kim, che risiede in un fatiscente seminterrato e aspira a una qualche forma di riscatto, e la famiglia Park, immersa in una condizione di privilegio e la cui lussuosa villa si trasformerà nel palcoscenico di un susseguirsi di inganni e colpi di scena. Attraverso una vicenda ammantata di suspense e scandita da improvvise esplosioni di violenza, Bong Joon-ho esplora pertanto le enormi disuguaglianze della Corea del Sud; ma l'affresco disegnato in Parasite potrebbe rispecchiare innumerevoli realtà geografiche, dall'Europa agli Stati Uniti.

In un'epoca in cui le derive di un capitalismo malato si riflettono su più livelli, da quello della crisi climatica a una situazione geopolitica contraddistinta da guerre economiche e militari, un film come Parasite appare quanto di più urgente e drammaticamente attuale il cinema abbia prodotto negli ultimi anni. Se alla base della sua forza si può ricondurre l'avvincente meccanismo narrativo messo in piedi da Bong Joon-ho e dal suo co-sceneggiatore Han Jin-won, è emblematica la frase posta in apertura del paragrafo che il New York Times ha dedicato al suo miglior film del secolo: "Un racconto su chi ha e chi non ha, e una feroce invettiva contro le devastazioni del neoliberismo". A testimonianza del fatto che quasi sempre il cinema e le classifiche non esistono in una dimensione a sé stante, ma sono irrimediabilmente immersi nello spirito del proprio tempo.