Il cinema di Paolo Virzì è un eterno braccio di ferro tra il sogno e la disillusione, la miseria e la speranza. Nei suoi film, quasi sempre focalizzati sul microcosmo familiare, emergono storie di vita beffarde, dove la realtà obbliga al disincanto ma le persone trovano dentro di loro un motivo per andare avanti, per trovare nella loro esistenza uno slancio di bellezza e di senso. Un po' come la sua Anna, protagonista de La prima cosa bella, che nonostante le difficoltà si concede alla vita, grazie ad un carattere puro e ingenuo, o come il suo Guido di Tutti i santi giorni, capace di amare incondizionatamente ogni giorno, attraverso i piccoli gesti, pure tra mille frustrazioni. In un Teatro Petruzzelli di Bari stracolmo il regista livornese riceve da Felice Laudadio, direttore artistico del Bif&st, il Premio Federico Fellini per l'eccellenza artistica, motivato da "uno sguardo lucido sulla società italiana, sempre pieno di responsabilità".
Una poetica che lo avvicina ai grandi maestri del passato e lo rende il più naturale erede di Ettore Scola e Mario Monicelli. Un passaggio di testimone che Paolo Virzì schiva con garbo: "_Per me questo è un paragone paralizzante, sarei un mitomane a ritenermi degno di un confronto con questi mostri sacri. Parliamo di personaggi straordinari che con il loro cinema hanno forgiato il nostro carattere nazionale. Se nel mondo ci vedono come persone virtuose dotate di simpatia e autoironia è soprattutto grazie a loro, perché in realtà noi italiani siamo astiosi, ignoranti e pieni di difetti_". Ed ecco tornare il conflitto tra la virtù e la miseria, quel contrasto tanto amato dal suo cinema, dentro un braccio di ferro che non finisce mai.
Non bravi, ma giusti
La storia del Paolo Virzì autore parte da molto lontano, da un'infanzia e da un'adolescenza passate per lo più in solitudine a leggere i romanzi di Jules Vernee Emilio Salgari. Da loro rubava i suoi primi racconti, per poi dedicarsi ad un certo tipo di cinema: "Devo ammettere che da ragazzo la commedia all'italiana mi disturbava. La trovavo proprio fastidiosa da guardare perché mi i suoi messaggi erano troppo disturbanti. A lei preferivo la leggerezza di François Truffaut e la pesantezza di Fassbinder, così come il cinema di Wim Wenders". I ricordi scorrono veloci e si soffermano sul primo, grande sussulto della sua carriera: Ovosodo. Un film che, a detta di Laudadio, ha avuto il merito di sdoganare la commedia italiana all'interno dei grandi festival. Leone d'argento a Venezia nel 1997, il terzo lungometraggio del regista viene ricordato così: "Quello è un film che mi ha legato tanto alla mia città: Livorno. Ricordo l'euforia per le strade, i maxi schermi in piazza e i livornesi che davano a mia madre dei soggetti tratti dalle loro vite perché io ne facessi un film. In quei mesi ho capito di essere percepito come un servizio pubblico, che il mio cinema era investito di una responsabilità sociale. Da allora ho sviluppato una passione profonda per personaggi strani, per gli scapestrati. Sono sempre affascinato dalle personalità strambe perché sono imprevedibili e interessanti. E devo dire che anche nella vita sono una specie di calamita per gli individui più assurdi".
Ma la stranezza non è l'unico filo conduttore del cinema di Paolo Virzì: "Per me il cinema non deve educare le masse, ma raccontare le debolezze, mostrare le fragilità delle persone, sempre con occhi genuini. Per questo adoro esplorare i conflitti della famiglia e, ogni tanto, affidarmi alla spontaneità dei non attori, persone prese dai licei, prestate dalla musica e buttate in scena. In questi casi mi sono sentito alle prese con un documentario, alla ricerca del momento magico, del fenomeno naturale. Dai grandi maestri del Neorealismo ho imparato questo: a volte non servono gli attori, non servono per forza quelli bravi, ma quelli giusti".
Tutta la vita le donne
Quando Virzì sale sul palco del Teatro Petruzzelli, sullo schermo scorrono ancora i titoli di coda de La prima cosa bella, un film a cui il regista è molto legato per il suo valore autobiografico, per la sua funzione quasi catartica: "Mia madre era una donna molto bella e mio padre un carabiniere. In casa ho spesso assistito a scenate di gelosia e situazioni spiacevoli da ricordare. Ognuno di noi ha un rapporto conflittuale con le proprie origini, spesso oppressive e difficili da gestire. La prima cosa bella è servito a riconciliarmi con tutto questo, oltre a darmi la possibilità di trattare i miei personaggi preferiti: le donne. Adoro scrivere storie al femminile, perché trovo le donne più sfaccettate e complesse.
Onestamente il fatto che siano spesso viste come vittime di qualcosa, le rende sempre subalterne e spesso toccanti". Un ruolo, quello di Anna Michelucci, legato a doppio filo con la vita privata del regista: "Ricorda in tante cose mia madre: la sua disposizione allo stupore, il candore ingenuo, lo stupore facile e un po' innocente. E poi è stata interpretata da Micaela Ramazzotti, la donna della mia vita. Quando l'ho conosciuta fui stupito da questa persona che sembrava ferita e poi ho scoperto essere camaleontica. Credo di amarla perché stare con lei è una continua ricerca, ti fa stare sempre sulle spine. Non ho ancora capito chi è, e spero di non saperlo mai".
Il capitare umano
Puntuale e prolifico, Virzì sembra un grande fan degli anni pari e questo 2016 non intende tradire la regola. Da dieci anni a questa parte, ovvero dall'uscita di N (Io e Napoleone) nel 2006, ogni 24 mesi un suo film arriva al cinema, e il prossimo è ormai vicino: si intitola La pazza gioia e approderà in sala il 18 maggio. Un'opera particolare perché scaturita da una visione, un'epifania avuta sul set de Il capitale umano, un film che qualcuno in sala accusa essere privo di quell'ironia sempre presente nella filmografia del regista. "Non sono d'accordo, perché ritengo quel mio lavoro un ritratto feroce ma molto ironico. Lo spirito è più dolente e pungente rispetto al solito, è vero, però quasi tutti i personaggi sono grotteschi, goffi, con il loro essere maldestri e inetti. Il capitale umano è stata anche la scintilla che ha ispirato il mio prossimo film, La pazza gioia. Stavamo girando una scena molto complessa con Fabrizio Gifuni e Fabrizio Bentivoglio, quando sullo sfondo, in lontananza vedo Valeria Bruni Tedeschi che tiene per mano Micaela."
"Camminavano a stento nella fanghiglia brianzola e si reggevano a vicenda. Tra l'altro la mia compagna era appena arrivata sul set e non conosceva Valeria, per cui questa solidarietà spontanea tra due donne sconosciute mi ha folgorato. Le ho riprese senza che loro se ne accorgessero e da lì è nato il mio nuovo film. È capitato. Infatti La pazza gioia parla di queste due donne problematiche e fragili che si aiutano a vicenda". L'appuntamento è tra poco più di un mese, per tornare a gustare quel sapore agrodolce tipico del suo cinema; non un marchio di fabbrica, ma un sentimento autentico, artigianale, che sa di reale in maniera quasi sgradevole. Come le commedia all'italiana che turbavano tanto il giovane Paolo Virzì.