Recensione Opera senza autore: l’arte, l’amore e la storia

La recensione di Opera senza autore, presentato alla Mostra di Venezia: la cronaca della giovinezza di un artista per ripercorrere trent'anni di storia della Germania.

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Opera senza autore: Cai Cohrs e Saskia Rosendahl in una scena del film

"Non distogliere mai lo sguardo: ciò che è vero è bello". È l'invito rivolto con urgenza disperata nel film Opera senza autore dalla giovane Elisabeth May al suo nipotino, Kurt Barnert. È il 1937, la Germania celebra compiaciuta il proprio Führer, il Terzo Reich si prepara a soggiogare mezza Europa e nel frattempo, con la complicità dei suoi funzionari, provvede a neutralizzare non solo ogni forma di dissenso, ma anche ogni elemento al di fuori della 'norma'... inclusa una ragazza non ancora ventenne, il cui equilibrio psichico non è in grado di reggere l'impatto di un orrore imminente.

La bellezza insita nella verità, qualunque essa sia: è il tema introdotto fin dal prologo di Opera senza autore, terzo lungometraggio del regista e sceneggiatore tedesco Florian Henckel von Donnersmarck, e ribadito più volte nel corso di oltre tre ore di durata. E la necessità di guardare, sempre e comunque, di non tirarsi indietro di fronte alla realtà dell'esperienza, sarà il principio guida di Kurt per i tre decenni a venire, in un film che funge anche da affresco della storia della Germania di metà Novecento.

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Ritratto di un artista da giovane

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Opera senza autore: Tom Schilling e Paula Beer in una scena del film

Opera senza autore, presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, segna il ritorno dietro la macchina da presa per Florian Henckel von Donnersmarck a otto anni di distanza dalla maldestra parentesi hollywoodiana di The Tourist. Artefice a soli trentadue anni di uno dei più acclamati esordi di inizio millennio, Le vite degli altri, con tanto di "bacio accademico" ai premi Oscar del 2006, Donnersmarck sceglie non a caso di cimentarsi con un altro racconto intrecciato a doppio filo con le tormentate vicende del proprio paese: se Le vite degli altri offriva un crudo spaccato della Repubblica Democratica Tedesca durante l'ultimo atto della Guerra Fredda, Opera senza autore accresce notevolmente le proprie ambizioni, aderendo per numerosi aspetti al modello del "grande romanzo popolare", ma recuperando anche le caratteristiche di un paradigmatico Bildungsroman.

Il racconto di formazione, nello specifico, è quello riguardante Kurt Barnert, che da adulto ha il volto di Tom Schilling (attore lanciato nel 2012 dal bellissimo Oh Boy - Un caffè a Berlino, delizioso omaggio allo stile della Nouvelle Vague). Cresciuto nella campagna di Dresda, coltivando la passione per il disegno, testimone impotente delle catastrofi del nazismo e della Seconda Guerra Mondiale, Kurt inizia gli studi in un contesto in cui l'unica forma d'arte ammessa e riconosciuta è il realismo socialista; nel frattempo si innamora di Ellie, interpretata da Paula Beer (protagonista nel 2016 di Frantz di François Ozon), che lo ricambia con altrettanta passione e con la quale progetta una vita insieme, a dispetto dell'ingombrante presenza del padre di lei, il rinomato ginecologo Carl Seeband (Sebastian Koch).

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Un racconto di formazione in tre atti

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La riflessione sul valore dell'arte, nucleo centrale della pellicola di Donnersmarck, è avviata in maniera esplicita fin dall'incipit, con la visita del piccolo Kurt al museo e gli strali della guida contro i pittori espressionisti (secondo la linea culturale imposta dal regime), e rappresenta il fil rouge che percorre un film imponente e, a tratti, non perfettamente bilanciato. Come già rilevato, Donnersmarck si confronta con una materia narrativa immensa, optando per una netta suddivisione dell'opera in tre macrosezioni. Il lungo prologo, focalizzato in particolare sul personaggio di Elisabeth (Saskia Rosendahl), è la parte che regala le sequenze di maggior impatto, pur scontrandosi con l'handicap di mettere in scena momenti drammatici e orrori inesprimibili (i bombardamenti, le camere a gas) con un approccio sostanzialmente accademico e assai poco inventivo.

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Opera senza autore: Sebastian Koch e Ina Weisse in una scena del film

Ed è appunto tale accademismo, coniugato alla tendenza verso un cinema 'didattico', il tallone d'Achille di Opera senza autore, che risente fra l'altro di una certa difficoltà a gestire i molteplici ingredienti del racconto. Dai toni tragici della prima parte si passa a quelli più leggeri della seconda sezione, dedicata al contrastato rapporto fra Kurt ed Ellie, con spunti da commedia (la fuga di Kurt, nudo, dalla camera da letto di Ellie all'improvviso rientro dei suoi genitori) e l'introduzione di un altro tema cardine del film: la rimozione delle responsabilità e delle colpe di coloro che, come il professor Seeband, dal nazismo raccolsero tutti i vantaggi possibili, salvo poi obliterare quell'oscuro passato per adeguarsi a un nuovo regime.

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La bellezza dentro la verità e l'orrore

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Opera senza autore: Sebastian Koch in una scena del film

Una questione complessa, quella legata all'eredità morale di una generazione e di un intero paese, che però Donnersmarck sviluppa in modo eccessivamente schematico: e il suo Seeband viene dipinto infatti come il più ambiguo e sgradevole degli antagonisti, con tanto di svolte narrative forzate e di banali espedienti (la musica sinistra al suo apparire in scena) che di certo non ci aspetteremmo da un regista capace, con Le vite degli altri, di raggiungere esiti ben più sofisticati. Ma Opera senza autore, al netto di intenti comunque ammirevoli, soffre in più occasioni di tale limite: un didascalismo che spinge più volte Donnersmarck a voler 'spiegare' a tutti i costi, a prendere per mano il proprio pubblico anziché riporre in esso una maggior fiducia, incappando inesorabilmente in alcune lungaggini.

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Opera senza autore: Tom Schilling e Paula Beer in un momento del film

Questo accade soprattutto nella terza sezione del film, ambientata nella Germania Ovest negli anni Sessanta, subito dopo la costruzione del muro di Berlino: la figura di Ellie, ormai priva di importanza (perfino il rapporto fra lei e i genitori viene presto accantonato), è relegata sullo sfondo, in scene erotiche ripetitive quanto patinate, lasciando spazio a Kurt e al completamento della sua formazione da artista. Una formazione in cui la memoria, individuale prima ancora che storica, assumerà un ruolo essenziale, a dispetto di un titolo quasi antitetico: l'autore, quell'ich tanto vituperato dal regime filosovietico, è invece il cuore dell'opera, mentre il suo sguardo risulta l'unico strumento a poter cogliere l'oscura bellezza nascosta dentro l'orrore. L'idea più interessante di un film ricchissimo di spunti, ma non sempre in grado di sostenere il peso delle proprie ambizioni.

Movieplayer.it

3.0/5