Recensione The Missing (2003)

Il regista Ron Howard torna anche sui nostri schermi con un film a metà tra l'avventura e il western, sorretto da un buon cast e una storia che manca di vera profondità ma possiede un discreto ritmo.

Nuovamente a caccia di pellerossa

Forte dell'Oscar vinto per A Beautiful Mind tre anni fa, il regista Ron Howard torna anche sui nostri schermi con un film a metà tra l'avventura e il western, sorretto da un buon cast e una storia che manca di vera profondità ma possiede un discreto ritmo.

Un solido e credibile Tommy Lee Jones interpreta Samuel Jones, un uomo che ha abbandonato la sua famiglia per vivere con gli Apache. Oltre vent'anni dopo si ripresenta alla figlia, ora guaritrice nonché proprietaria di un ranch, che aveva abbandonato e scopre che ella stessa ha due figlie: Lilly, adolescente vulnerabile e allo stesso tempo ribelle, e la più giovane Dot, vivace e curiosa, soprattutto nei confronti del redivivo nonno "quasi" pellerossa. Ovviamente Maggie, una Cate Blanchett come sempre estremamente convincente, non ha alcuna intenzione di perdonare il padre, ma anzi lo allontana dalla sua famiglia una volta per tutte, senza sapere però che solo il giorno dopo si ritroverà costretta a ricorrere al suo aiuto nell'affannosa e pericolosa caccia ad un gruppo di indiani che hanno rapito Lilly ed altre ragazze del posto allo scopo di venderle come schiave in Messico.

Howard confeziona un western decisamente atipico, che si allontana sia dal filone classico statunitense inserendo un punto di vista femminile e soprattutto di madre all'interno di un genere sempre poco generoso nei confronti delle donne, sia da quello più moderno (Balla coi lupi è ovviamente il primo nome a venire in mente) che rielebora la figura degli indiani vedendoli non più come crudeli nemici ma come vittime di una vera e propria persecuzione. In questo senso The Missing si colloca a metà strada: i pellerossa tornano ad essere dei nemici brutali e senza pietà, ma sono in realtà dei disertori ell'esercito americano, ex guide Apache che, sotto la guida dello spaventoso stregone - o brujo se preferite- Chidin hanno deciso di ribellarsi; ma d'altra parte Samuel Jones è anche'egli quasi un indiano e, insieme ad altri due uomini della sua vecchia tribù, si colloca dalla parte dei buoni nel salvare la nipote e tutte le altre donne rapite.

Il film è composto in buona parte da scene d'azione ben girate che vanno da sparatorie ad inseguimenti, ma il nocciolo del film è, o almeno dovrebbe essere secondo i realizzatori, il rapporto conflittuale ed emotivo tra le tre generazioni che compongono la famiglia al centro dell'azione: da una parte abbiamo un uomo non più giovane, forse pentito e colmo di rimpianti, dall'altra una figlia ribelle ( e la Evan Rachel Wood di Thirteen - Tredici anni pur avendo spazi piuttosto esigui riesce anche qui a non far passare certo inosservato il suo talento) che vede nella pur giovane madre una figura ormai troppo tradizionale e legata a concezioni ormai superate; tra queste due figure si erge quella della Blanchett, forte e fragile allo stesso tempo, abituata a contare esclusivamente sulle proprie forze e sulle proprie convinzioni, ma costretta, per necessità, ad accettare non solo l'aiuto ma anche un modo di vivere ed intendere la natura e il mondo a lei estraneo e, almeno all'inizio, ostile.

Fatte queste premesse, quello che rimane da capire è se tutti questi elementi riescano a fondersi e funzionare, dando vita ad un buon film. La risposta è allo stesso tempo un si e un no, perché se il film è piacevole da guardare (merito anche degli straordinari paesaggi del New Mexico, di una fotografia molto pulita e di una efficace colonna sonora ad opera di James Horner) è anche vero che la storia, e quindi la sceneggiatura di Ken Kaufman, in alcuni momenti scade nel patetico o nel poco verosimile. In più chi conosce i lavori di Howard saprà più o meno cosa aspettarsi: come regista sa far bene il suo compito e confeziona film senza grossi difetti ma senza nemmeno grandi pregi; personalmente non ci è mai capitato che un suo film ci facesse uscire dal cinema né esaltati né indignati. In medio stat virtus recita il detto, e Ron Howard sembra apprezzarlo talmente tanto da averne fatto il leit motiv della sua intera carriera.

Movieplayer.it

3.0/5