Quel bravo ragazzo poteva farsi prete. E invece no. Quel ragazzo bassino dalle sopracciglia folte e dallo sguardo acuto ha seguito altre vocazioni. Il suo confessionale è diventato una grande sala, il suo rito collettivo si è trasformato in una proiezione. Uomo di fede disilluso dalla vita, Martin Scorsese ha celebrato il suo cinema potente attraverso parabole discendenti, storie di uomini feroci in cui convivono desiderio di vita e di morte, personaggi messi alle corde dai traumi del passato o dalle loro aspirazioni rivolte al domani. Presto quel bravo ragazzo di origini siciliane, cresciuto tra le strade newyorkesi di Little Italy, avrebbe avuto i suoi fedeli, spettatori affascinati da film "sacri", attraversati da un'inquietudine perenne, capace di rendere tremendamente vero e vibrante quel grande schermo. C'è tanta ambizione nel cinema di Martin Scorsese, habitat di individui che pretendono sempre qualcosa, vogliono diventare qualcuno, sempre protesi verso una qualche forma di mito (sportivo, lavorativo, spirituale). Un'ambizione vissuta in prima persona da Scorsese, una voglia tatuata nell'anima di un regista inquieto che non ha mai vissuto il cinema come un'arte scaturita dai propri sogni. "Non sognate mai". Questo è stato il consiglio sincero di Scorsese rivolto a dei giovani studenti. Perché la sua arte ha sempre avuto altre fonti, le sue storie sono nate altrove. Vengono dalla strada e non da puro guizzo creativo, profumano di asfalto e di rabbia, hanno il sapore delle indigestioni e di intere giornate passate a letto. Martin Scorsese ha conosciuto sulla sua pelle la depressione, la droga, la paura di non farcela, di non essere abbastanza. La stessa stessa alienazione del tassista Travis Bickle, vertigini simili a quelle dell'imprenditore Jordan Belfort. A salvarlo dal baratro fu un film, un patto di sangue tra lui e l'amico Robert De Niro, fu sublimare il dolore nella storia di Toro scatenato.
Lo girai come un kamikaze. Ce l'avevo messa tutta. E pensavo che sarebbe stato il mio ultimo film
Il suo è, insomma, un cinema di vita. Per questo è così vero, vibrante, viscerale, irresistibile. "Parla di quello che conosci" è stato il suo monito, e così ha fatto. Cosa conosceva bene il buon Martin? Il cinema e la strada. Quelle sopracciglia così folte sono state come spugne porose, in grado di assorbire tanto, ovunque.
Tanto del cinema amato (la Novelle Vague, il neorealismo italiano, John Cassavetes), tanto delle arterie della sua New York, così piena di sogni e di miti da ridimensionare a suon di pallottole e cazzotti. Però, oltre a gangster, bande rivali e vendicatori, c'è spazio anche per l'amore del cinema, Un momento straniante, un lampo quasi spielberghiano in mezzo a tanta fatica, e si chiama Hugo Cabret. Così come il piccolo protagonista del suo film più poetico, oggi ci aggrappiamo alle lancette del tempo per celebrare i 75 anni di uno dei più grandi registi della storia del cinema. Consapevoli del fatto che servirebbero saggi interi per sviscerarne ogni segreto, ci limiteremo ad approfondire i suoi temi più cari e ricorrenti, a strizzare quella spugna da cui escono sudore a sangue, a ringraziare quell'italo-americano bassino che diede ascolto alla sua vocazione più blasfema.
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Soli uomini, uomini soli
Da Chi sta bussando alla mia porta? a Silence. Il primo e l'ultimo film di Martin Scorsese sembrano quasi comunicare tra loro. Si parte da un suono e si arriva nel silenzio assoluto. In mezzo il rumore di un cinema prettamente maschile, un rumore di ossa rotte, fragorose cadute e faticose risalite. Il panorama umano di Martin Scorsese è costellato di uomini, e per questo abile a mettere in scena tanti sentimenti legati alla sfera maschile. Il risentimento, il desiderio di affermazione, la rabbia, la violenza, la gelosia, la brama. L'umanità di Scorsese sembra perennemente tentata dai mali interni dell'uomo, braccata da un nemico più interiore che esteriore.
Il suo, però, non è solo un cinema di soli uomini, ma anche di uomini soli, relegati ad una condizione di solitudine e di emarginazione anche quando si parla di famiglia, di vittorie, di aziende e di successo. Gli uomini scorsesiani sono spesso scollati dal loro mondo, perché o vivono poco (Taxi Driver) o vivono troppo (The Wolf of Wall Street). Si verifica così una perenne scissione Io-Mondo, raccontata con sguardo impietoso (Toro Scatenato) e a volte persino grottesco (Quei bravi ragazzi), eppure efficace nel delineare un panorama umano spesso miserabile. No, il cinema di Scorsese non è un posto per bravi ragazzi.
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Spirali scatenate
Guardarsi attorno, guardarsi dentro, e scavare, scavare sino a toccare il fondo, sino a scovare la pasta di cui siamo fatti. Sono viaggi scomodi, dentro posti lugubri, diretti verso il cuore marcio dell'essere umano. Non può succedere altrimenti quando fai della frustrazione, del peccato e della colpa il terreno del tuo cinema. I temi viscerali amati da Martin Scorsese sono diretti verso zone buie oppure troppo accecanti, la loro meta è nota, e il loro percorso ricorrente. Sì, perché nelle parabole narrative di Scorsese c'è un movimento familiare, che ritorna con puntualità in molti dei suoi film: la spirale. I suoi uomini compiono giri concentrici, si allontanano dal baratro e sfiorano, persino toccano il successo, mentre poco alla volta scendono, cadono, si incastrano dentro un imbuto da cui è difficile riemergere. Invischiati nei loro stessi limiti, tanti personaggi toccano il fondo, arrivano ad un punto limite in cui perdersi o da cui trovare la forza per rialzarsi e redimersi. Succede all'alienato Travis in Taxi Driver, all'irriducbile Jake di Toro Scatenato, al ridimensionato Henry di Quei Bravi Ragazzi, all'ossessionato Huges di The Aviator e l'onnipotente Belfort di The Wolf of Wall Street. Il cinema di Scorsese vive sull'orlo di un abisso in cui la risalita non è certa come la caduta.
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Fare un film è di per sé un'idea folle, dato che si tratta di un'impresa enorme, della quale si afferra la dimensione solo quando ci si è dentro... ma allora è troppo tardi
Strade unite d'America
Del sogno americano è rimasto solo qualche segno. Cicatrici e scottature di chi si è ferito e bruciato cercando la propria scalata al successo. Esplorare la filmografia di Scorsese significa compiere almeno un paio di viaggi. Il primo, come detto, è diretto nelle contraddizioni intime dei suoi uomini ambiziosi, il secondo è viaggio tra le strade della sua America. L'importanza dei luoghi nel cinema scorsesiano è fondamentale, perché strade, vie, locali, bar diventano specchio in cui riconoscersi oppure sentirsi emeriti estranei. Lo sguardo del regista italo-americano scruta le vie americane dagli specchietti retrovisori dei taxi, dalle finestre scintillanti dei piani alti del potere, dalle vetrine sporche di una vecchia locanda. New York, Boston, Las Vegas, il contesto urbano diventa anch'esso racconto, un racconto contemporaneo che con Gangs of New York diventa mito fondativo, ricerca di origini e epica. Allergico alla bellezza pura e incontaminata, Scorsese fa di New York una mela marcia, di Boston un covo di odio represso, di Las Vegas un luogo di perdizione. Per trovare la vera magia, non resta guardare altrove, magari in una città francese dove stava per nascere la sua ragione di vita.
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L'attore feticcio
Se fai della violenza (fisica e psicologica) una costante, e se ti dedichi con sguardo così scrupoloso e impietoso alle zone oscure dell'essere umano, devi scegliere la materia prima con molta attenzione. Per questo Martin Scorse, quando si tratta di attori, ha sempre preferito andare sull'usato sicuro, cercando di modellare volti e corpi a lui familiari, in grado di reggere tutti quei conflitti senza esserne sopraffatti. I due nomi che dividono la carriera scorsesiana in due ere sono, ovviamente, quelli di Robert De Niro e di Leonardo DiCaprio. Due attori messi a nudo, costretti ad esplodere e ad implodere dentro i loro personaggi sempre sul filo, sospesi tra la rabbia e l'ossessione, l'onnipotenza e l'impotenza. Se Robert De Niro è stato un amico, un consigliere, persino una spalla nei momenti bui del regista, Leonardo DiCaprio deve a Scorsese la sua maturazione e la sua consacrazione definitiva; è lui l'artefice del suo passaggio da sex symbol ad interprete eclettico, con un grande fiuto per buone sceneggiature. In un cinema di corpi messi alla prova e di volti attraversati da emozioni violente, De Niro e DiCaprio sono stati più di due perfetti feticci nelle mani di un regista, ma due persone entrate in sintonia con una precisa poetica d'autore.
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Fuori campo, dentro il pubblico
Sussurri, pensieri sparsi, monologhi interiori. La voce fuori campo è una fedele alleata dei film di Scorsese, e se la consideriamo una tecnica di racconto tipica del cinema americano, questo ci fa capire quanto il buon Martin sia rappresentativo per tutta la cinematografia statunitense. Dentro le sue opere scorrono questi fiumi in piena di parole che sfruttano il cinema come un confessionale; sono soliloqui utili a farci entrare in contatto con dei personaggi vogliosi della nostra attenzione, della nostra considerazione, della nostra empatia. La tecnica della voce fuori campo di Scorsese (ripresa anche dai suoi allievi come David O. Russell) è molto più di una scorciatoia, ma un mezzo per arrivare ad un obiettivo ben preciso. Essere coinvolti nell'intimità del protagonista lo rende per forza di cose vicino allo spettatore, perché essere i destinatari delle sue confessioni crea un patto tacito tra loro e il pubblico. Così lo spettatore finisce per capirli, comprenderli, persino giustificarne azioni immorali, creando così un inevitabile senso di colpa negli occhi di chi guarda. Oggi, nel giorno dei 75 anni di un grande regista, siamo egoisti e l'augurio lo facciamo a noi, nella speranza di sentirci ancora colpevoli per molto, molto tempo.