"Che c'entra la speranza con i fatti?". Una domanda che è quasi un rimprovero quella che l'avvocato, impegnato ad aiutare Manuel (Andrea Lattanzi) a far uscire la madre dal carcere, rivolge al ragazzo. Quella stessa madre che con il suo arresto, diversi anni prima, ha (ri)disegnato il destino del figlio. Cresciuto in una casa famiglia, Manuel ha appena compiuto diciotto anni. È finalmente libero di uscire ma quell'indipendenza ha un retrogusto dolceamaro. L'affido della madre ai domiciliari, per scontare gli ultimi due anni di pena, dipende solo dalla capacità di dimostrare ai giudici la sua responsabilità e affidabilità.
Ideale proseguimento di finzione de La Repubblica dei ragazzi, documentario del 2015 nel quale Dario Albertini descriveva le fasi di autogoverno di una comunità di giovani privi del sostegno familiare, Manuel è stato presentato nella sezione Cinema nel Giardino di Venezia74. Un racconto di formazione ambientato nella periferia romana che segue il ragazzo nel passaggio dall'Istituto al "mondo reale". Ne abbiamo parlato con Dario Albertini e Andrea Lattanzi, rispettivamente regista e attore protagonista del film.
Leggi anche: Manuel: la recensione del film di Dario Albertini
Dal documentario al cinema di finzione
Come nasce l'idea del film?
Dario Albertini: Il film nasce da un documentario, La Repubblica dei ragazzi, girato a cavallo tra il 2012 e 2013, nel quale raccontavo la storia della struttura, ciò che era riuscita a creare nel corso degli anni, l'arrivo e la permanenza dei ragazzi. Non riuscivo però, anche per questioni di tempo, a raccontare la fase delle loro uscita e come veniva affrontata.
Poi cosa è successo?
Dario Albertini: Mi sono reso conto di quanto fosse importante quando ho vissuto all'interno dell'Istituto. All'inizio volevo fare un documentario solo su quella fase lì, perché avevo conosciuto e seguito personalmente l'uscita del vero Manuel. Riflettendoci, però, mi sembrava una violenza mettere una macchina da presa addosso a qualcuno che stava iniziando un percorso di "libertà". Per un periodo ho accantonato l'idea, realizzando un altro documentario, ma poi ci sono ritornato perché era qualcosa che sentivo il bisogno di raccontare.
Leggi anche: Da Fuocoammare a Strane Straniere: 5 documentari italiani da (ri)scoprire
Cosa ti ha spinto a raccontare la storia in un film di finzione?
Dario Albertini: Inizialmente avevamo deciso di far interpretare questa storia al vero Manuel. Con Simone Ranucci avevo iniziato a lavorare a un documentario scritto. Una cosa per me nuova, dato che ho sempre scritto solo in fase di montaggio. Per questo tipo di racconto, quando ancora c'era l'idea del documentario, volevo avere chiari tutti i punti per non risultare invadente. Col tempo mi sono reso conto che stavamo scrivendo qualcosa che doveva succedere, quindi non era più un documentario per come lo intendevo io. Da quel momento si è trasformata in scrittura di finzione sempre con il vero Manuel protagonista. Un'idea, però, che continuava a sembrarmi una forzatura. Così abbiamo iniziato a cercare un attore. Ho conosciuto Andrea e me ne sono innamorato. Per lui era il primo film da protagonista e per me il primo di finzione. Direi che ci siamo trovati...
Quanto è stato difficile, visto il tuo background nel documentario, scrivere i dialoghi di finzione?
Dario Albertini: Molto. Ci abbiamo messo tre anni a scrivere il film! Tutto quello che non era successo, per me non aveva senso. Quando lo sceneggiatore mi presentava delle idee, ero terrorizzato. È stato un grande limite. Un altro grande problema è stato trovare l'attore che interpretasse Manuel. Prima di trovare Andrea ho provinato quasi trecento ragazzi e ogni volta avevo sempre in mente il vero Manuel, il suo aspetto, il suo modo di parlare...
Avete improvvisato sul set?
Dario Albertini: Più che altro, abbiamo fatto un lavoro di sottrazione. Eccezione fatta per La Repubblica dei Ragazzi, guardando a tutto quello che ho fatto in precedenza, da Slot - Le intermittenti luci di Franco a Incontri al mercato, ho sempre cercato di prendere il non professionista e portarlo, manipolandolo un po', dove volevo io. Qui ho fatto il contrario: avevo dei professionisti che dovevo far diventare dei non attori. Forse è quello che dà l'idea del dialogo reale. Ma abbiamo anche molto improvvisato. Il set era molto dinamico e ci siamo adattati a quello che succedeva giorno per giorno.
Andrea Lattanzi: Amo improvvisare, è qualcosa che volevo fare per il film e con Dario ci siamo trovati anche sotto questo aspetto. Credo che da un punto di vista registico se ti accorgi che i tuoi attori sono bravi nell'improvvisare glielo lasci fare, altrimenti non gli metteresti mai in mano un compito così importante.
Leggi anche: Cinema italiano: non ancora Veloce come il vento, ma nemmeno più un Perfetto sconosciuto
Una storia vera incentrata sulla spontaneità
Hai conosciuto il vero Manuel o qualcuno dei ragazzi ospiti della struttura?
Andrea Lattanzi: No, non ci siamo incontrati. Dario, prima ancora di darmi la conferma di essere stato preso per il ruolo, mi ha fatto vedere dei filmati che aveva girato a Manuel. Ho visto molto materiale su di lui ma sempre tramite video. Per quanto riguarda i ragazzi, invece, è stata una vera scoperta. Ognuno aveva il suo carattere, la sua storia, un ruolo e dei compiti all'interno della casa famiglia. Inoltre hanno una politica e una moneta tutta loro, qualcosa di davvero spettacolare. Prima di entrare nella struttura avevo visto il documentario di Dario, ma viverlo dall'interno è stata un'altra cosa. Quando sono entrato, non avevano idea fossi un attore. Conoscendoli ho rubato molto da loro per creare il mio Manuel.
Questi ragazzi hanno avuto modo di vedere il film? Che tipo di reazioni hanno avuto?
Andrea Lattanzi: Sì, lo hanno visto a Civitavecchia. È stata un'emozione grandissima. C'era un'atmosfera particolare. La ritengo la serata più belle di tutte le proiezioni del film fatte finora. I ragazzi erano molto presi. Spesso ridevano, non perché il film fosse ridicolo, ma perché si rispecchiavano in quello che vedevano. Una risata leggera che ti metteva allegria. Finita la proiezione, un bambino di tredici anni si è avvicinato e ci ha detto che il film era stato "raffinato". Una cosa del genere detta da un ragazzino di quell'età puoi immaginare che impatto abbia avuto su di noi...
Avete girato in sequenza?
Dario Albertini: Fortunatamente sì. È stato l'unico lusso che abbiamo avuto. Abbiamo girato in sequenza cronologica e il più possibile in piano sequenza. Era fondamentale, sopratutto per Andrea e per Francesca (Francesca Antonelli ndr) che non avevano neanche avuto la sceneggiatura ma solo quattro righe di incipit. Andrea così ha vissuto quello che viveva Manuel. Ogni sera gli davo uno stralcio di quello che avremmo fatto il giorno seguente sul set.
Andrea, immagino che questo ti abbia aiutato nel costruire la crescita emotiva del tuo personaggio...
Andrea Lattanzi: Assolutamente. È stata una fortuna. Era automatico che, giorno dopo giorno, mi svegliassi e mi trovassi nel giusto stato d'animo, lo stesso del mio personaggio. L'ho capito dopo ma filmare in sequenza è stato un vantaggio.
C'è qualche attore al cui lavoro ti sei ispirato?
Andrea Lattanzi: Mi ispiro a un attore soltanto che si trova oltreoceano: Matthew McConaughey! Ma, a dire il vero, per il personaggio di Manuel non mi sono basato su nessuno in particolare lasciando che fosse la spontaneità a prevalere.
Leggi anche: Matthew McConaughey: cinque fasi di una rinascita
Le citazioni, la casualità e l'accoglienza
Dario, ne La Repubblica dei Ragazzi, durante una delle interviste, inquadri una foto che ritrae Antoine Doinel nel frame finale de I 400 colpi mentre guarda dritto in camera. In Manuel c'è una citazione a Baci Rubati. Quanto sei stato influenzato da François Truffaut nella realizzazione del film? Ci sono altre suggestioni cinematografiche che ti hanno ispirato?
Dario Albertini: Nei sei mesi precedenti all'inizio delle riprese non sono riuscito a vedere nessun film. Un blackout totale! La coincidenza del riferimento a I 400 colpi è stata molto bella. Quando ho realizzato il documentario non me ne sono reso conto di quell'inquadratura, l'ho vista solo al montaggio. Magicamente, mesi dopo, proprio con La Repubblica dei Ragazzi abbiamo vinto il premio I 400 colpi al Festival di Vittorio Veneto. La scena con il monologo di Baci rubati, invece, l'ho scelta per la frase "Siamo tutti unici e insostituibili".
La scena finale sembra un omaggio proprio al film con protagonista un giovanissimo Jean-Pierre Léaud.
Dario Albertini: In quella scena c'è un mondo dentro. Un mondo intimo, mio e di Andrea. Non era voluta. C'ero io in macchina. Ci trovavamo in una rotatoria, tra macchine che ci passavano accanto e la polizia che si era fermata e voleva cacciarci dato che non avevamo i permessi. Quello che è successo è un po' surreale. Lui stava piangendo, io lo riprendevo di lato e, ad un certo punto, è arrivata dal nulla una botta di vento da dietro. Io mi sono mosso con la macchina, lui si è girato e mi ha guardato. Al montaggio mi sono reso conto di quanto fosse meravigliosa. L'ho vista come un ritorno alle mie origini, mi ha fatto sentire a casa. La prima regola che insegnano a un attore è di non guardare in camera. Nel documentario, per assurdo, è una forza. Rivedendolo in sala mi è sembrata quasi una richiesta d'aiuto che Manuel fa al pubblico. In molti in Francia hanno letto così il finale.
Leggi anche: L'amore e il cinema: ricordando François Truffaut nel trentennale della scomparsa
A proposito della Francia, che tipo di accoglienza avete ricevuto? Avete notato delle analogie o differenze tra il pubblico di altri paesi e il nostro?
Dario Albertini: Abbiamo fatto moltissime proiezioni fuori dall'Italia. In Francia abbiamo partecipato a quattro festival e siamo anche andati in Spagna. Una delle reazioni più forti l'abbiamo avuta al Cinema Mediterranéen Montpellier dove il film ha vinto i primi tre premi. Ricordo la reazione di cuore, all'uscita da una proiezione, di un gruppo di educatrici. Un'emozione così l'abbiamo riprovata a Roma qualche sera fa. Abbiamo trovato un pubblico francese molto simile a quello romano!
Andrea Lattanzi: Anche la proiezione del Festival Premiers Plans D'Angers è andata benissimo...
Dario Albertini: Andrea è stato premiato davanti a 1.800 persone come miglior attore da Catherine Deneuve che lo chiamava "Manuel! Manuel! Manuel!". Ritrovarci in queste situazioni è stata una grandissima soddisfazione rispetto alla dimensione volutamente contenuta dalla quale siamo partiti...
Nel film la macchina da presa è spesso incentrata su Manuel, escludendo dall'inquadratura i personaggi circostanti, mentre nelle scene più intime si allontana. Come hai trovato la chiave visiva del film? Era un'idea che avevi in mente già prima di iniziare a girare?
Dario Albertini: In realtà questo è il mio modo di lavorare. Con i miei documentari avevo lavorato incentrando tutto sul personaggio da raccontare, escludendo sia gli altri che gli spazi. Così, anche per Manuel, non avevo un'idea predefinita e non ho mai fatto storyboard. Arrivato sul set la mattina e studiavo con il direttore della fotografia i passaggi, anche se era sempre tutto molto estemporaneo. In fase di scrittura, però, avevo tre punti "bloccati": quando Manuel va a salutare la sua amica prima di lasciare l'Istituto, il momento dell'uscita e quando incontra sua madre in carcere. Ci siamo stati mesi su questi punti e, alla fine, abbiamo deciso di allontanarci e rimanere fuori dalla finestra del dialogo.
Andrea, qual è stato il tuo rapporto con la macchina da presa che sembrava pedinarti nel tuo passaggio dall'Istituto al mondo "libero"?
Andrea Lattanzi: Non l'ho vissuto con pesantezza. Ho studiato molto e questo mi ha aiutato ad avere confidenza con la camera. Quando girai il corto Un'altra storia con Valeria Golino e Valeria Solarino ero alla mia prima esperienza e ricordo l'emozione di trovarmi davanti a quell'obiettivo. In Manuel, invece, ero più consapevole...