Esterno, notte, siamo appena fuori dalla banca centrale di Clerville. Una macchina nera, l'inconfondibile Jaguar E-Type di Diabolik, sinuosa e tipicamente Sixties, sfreccia all'interno della galleria di un edificio. Poco dopo è in fuga. La macchina da presa stringe spesso sui particolari di quest'auto cult. Il volante, il cambio, lo specchietto retrovisore. Vediamo, in un primissimo piano, il volto di Diabolik, completamente coperto dalla classica maschera nera che lascia scoperti gli occhi verdi di Luca Marinelli. Sì, abbiamo finalmente visto cinque minuti di Diabolik l'attesissimo film dei Manetti Bros., in uscita il 16 dicembre dopo una lunga attesa. Sono i cinque minuti iniziali, e non vediamo l'ora di essere al cinema, in una sala piena, per gustarci tutto il film. Marco e Antonio Mainetti, nel frattempo, sono stati i protagonisti di un bellissimo incontro con il pubblico alla Festa del Cinema di Roma. I primi cinque minuti di Diabolik sono il prologo, ricco d'azione, di un film che promette di essere molto interessante. Si tratta di una sequenza d'azione in cui Diabolik e la sua macchina mettono in atto tutte le loro astuzie e i loro mezzi. La polizia insegue. A un certo punto, una volta capito che Diabolik con uno stratagemma li ha messi fuori gioco, un agente chiede all'ispettore Ginko, che ha il volto di Valerio Mastandrea "E questo che cos'è?" "È Diabolik" risponde lui.
Diabolik, le città e la Jaguar
"Quell'inseguimento è stato girato tra Bologna, Milano e Trieste" ci ha svelato Marco Manetti. "Abbiamo messo insieme tre città per fare Clerville". In scena, accanto a Marinelli e a Mastandrea, c'è, come detto, la Jaguar E-Type. "È importantissima" ci tiene a dire Marco Manetti. "Diabolik non può avere un'altra macchina che lei. È la macchina poi bella del mondo". "Spero che sia un bel film il nostro" aggiunge. "Ma ringrazio chi ha creato Diabolik. Molti non lettori lo conoscono solo dalle immagini, ma Diabolik ed Eva Kant sono dei grandi personaggi: sono la capacità assoluta di scrivere personaggi che ci possono far capire come si può stare dalla parte del male". "C'è chi insegue la sua occasione, c'è chi insegue la propria fine, c'è chi insegue il suo grande amore, c'è chi insegue la sua ossessione. La verità si può cambiare, la verità si può travestire. Gli dai la caccia nei miei occhi, segui i miei passi. Non vorrei che tu ci trovassi la profondità degli abissi". Le parole, e la musica, che aprono Diabolik sono di Manuel Agnelli. E La profondità degli abissi è bellissima.
Diabolik: i Manetti Bros. presentano il backstage del film al Noir in Festival 2021
Non siamo appassionati cinema di serie B!
I cinque minuti di Diabolik sono stati il culmine di un incontro con il pubblico che ha riservato molte sorprese. Una su tutte ci ha colpito particolarmente. I Manetti Bros. ci hanno tenuto a sfatare il mito che li vuole registi amanti dei B Movie. "Noi non siamo cresciuti a pane e B Movie" precisa Marco Manetti. "È un equivoco da cui vogliamo liberarci: non siamo appassionati cinema di serie B. È la nostra storia che ci ha fatto uscire fuori con degli appassionati di quel cinema: Piotta e Marco Giusti. Noi amiamo tutto il cinema e non abbiamo disdegnato il cinema di serie B. Ma non siamo dei grandi appassionati o conoscitori. Il cinema di sogno e di avventura americano è quello che ci ha formato. Siamo cresciuti con i film della New Hollywood e poi con quello degli anni Ottanta, Spielberg e Carpenter, e più avanti il cinema orientale". "I film di Hitchcock sono quelli che guardiamo quando vogliamo immergerci nel cinema" aggiunge Antonio Manetti. "Quando cerchiamo delle risposte le troviamo in lui".
Il Metodo Manetti
Ma c'è un Metodo Manetti che i due registi adottano sul set? "Sul set per sopravvivere ci siamo dovuti creare un sistema di lavoro" racconta Marco Manetti. "Antonio è anche operatore alla macchina da presa, e di conseguenza io parlo di più con gli attori. Mentre tutto il resto si fa prima, il parlare con gli attori e le inquadrature si fanno lì. È una divisione di compiti, un sistema di lavoro. Di solito i registi hanno un operatore. Avere un operatore che è anche regista è un lavoro completamente diverso. Quando andiamo sul set io comincio a parlare con gli attori, e abbiamo questo metodo che rende gli attori molto liberi. Sugli altri set gli attori devono stare attenti ai segni per terra entro i quali devono muoversi. Per il fatto che Antonio è anche il cameraman, loro sono più liberi di muoversi e la camera, guardando quello che avviene in scena, sceglie il punto di vista". "Pensiamo che l'attore sia più importante della luce" aggiunge Antonio Manetti, "Noi diamo molta libertà, e i direttori della fotografia devono saperlo prima, altrimenti impazzirebbero: se un attore va fuori dalla luce io lo inquadro lo stesso; un operatore professionista dice all'attore non ci andare fuori dalla luce". "Spesso noi diciamo che siamo il comitato di liberazione della macchina da presa" conclude Marco, con un'immagine che dice tutto. "Noi non siamo per niente sboroni, non abbiamo mai cercato di fare di più di quello che ci spettava, ma un po' di meno, in modo che in quello che facevamo ci stavamo dentro comodi: anche per il cast. E questa cosa ci ha permesso di creare un metodo di lavoro - anche quando facciamo i film con alto budget - che usiamo ancora oggi".
I Manetti Bros. al Festival di Roma col poliziesco Song 'e Napule
Piano 17 (2005)
Abbiamo visto poi il Metodo Manetti attraverso alcune sequenze di loro film, in ordine cronologico. Vederle in questo modo è stata anche l'occasione per capire le difficoltà che i Manetti Bros. hanno incontrato nella loro carriera. E il loro modo di affrontare gli ostacoli. Si comincia da Piano 17, un heist movie, un piccolo film girato quasi tutto in un ascensore. "È un film molto importante per noi" commenta Marco. "È stato l'inizio di quello che siamo oggi". "Piano 17 è nato dal fallimento di Zora la vampira" ricorda Antonio. "Era un film prodotto da Cecchi Gori con Verdone attore e produttore che ci teneva tantissimo. È un film che non abbiamo sentito nostro, perché non c'era libertà, avevamo troppi mezzi, il direttore della fotografia che ci metteva sette ore a preparare e noi avevamo un'ora per girare. Facendo la serie L'ispettore Coliandro avevamo trovato quasi tutto quello che sarebbe stato il cast di Piano 17, abbiamo fatto amicizia, abbiamo trovato i soldi e siamo diventati per la prima volta produttori. E da lì siamo stati sempre produttori: sappiamo quanti giorni dobbiamo girare, come si usano i budget. Vogliamo questo privilegio e ci sentiamo liberi". "Ormai anche quando non siamo produttori mettiamo una clausola" rivela Marco. "I produttori è come se fossimo noi, altrimenti non lo facciamo".
Con i Manetti Bros. a Venezia per L'arrivo di Wang
L'arrivo di Wang (2011)
È stata poi la volta de L'arrivo di Wang, e della sequenza in cui l'interprete viene finalmente introdotta alla persona a cui sta traducendo le parole. Un momento di grande sorpresa, e di grande cinema. E un altro film nato in maniera molto particolare. "Volevamo continuare il percorso iniziato con Piano 17" ricorda Marco Manetti. "Fare cinema doveva essere più di un lavoro, doveva essere quello che ci andava di fare. Condividevamo l'ufficio con una casa di produzione di effetti speciali, la Palantir. Volevano fare un corto che fosse un loro biglietto da visita, e che fossimo noi a dirigerlo. Ci siamo immaginati un interprete di cinese a cui viene chiesto di fare un lavoro al buio, e quando chiede di vedere con chi lavora si accendono le luci ed è un extraterrestre che parla cinese. Il soggetto era solo questo, e scrivendo la sceneggiatura ci siamo accorti che non sarebbe bastato un corto. Abbiamo detto loro: se invece lo produciamo noi, e voi fate gli effetti speciali?" Il film è nato così e sancisce l'incontro con Luciano Martino. "Era un produttore di una certa età, che sapeva mettere insieme i soldi, ma non gli andava di produrre" racconta Marco. "E così lo ha fatto fare a noi". "Una volta finito il film ci disse: ma io lo farei vedere a Venezia" racconta divertito Marco provando a imitare la voce del produttore. "Nella vita bisogna solo provare a fare le cose e poi succedono. Lo fece vedere a marco Muller e a lui piacque". Così il film andò nella sezione Controcampo Italiano e i giornali titolarono "Un alieno a Venezia". Fu un successo.
Song'e Napule (2013)
Ed è stato proprio Luciano Martino a portare i Manetti A Napoli. Anche Song 'e Napule ha una storia curiosa. "Reputiamo questo film il nostro più grande successo" commenta Marco Manetti. "Ci tengo a dire che l'applauso che ha ricevuto questo film alla Festa di Roma è stato il passaggio dalla libertà al successo, mantenendo la libertà". Ma arrivarci non è stato facile. "Prima di questo film abbiamo fatto un altro film, Paura 3D, che non era andato bene" confessa Marco. "Giampaolo Morelli ci propose di fare Song'e Napule, e noi abbiamo detto che volevamo fare prima Paura, credevamo che quella fosse la nostra strada, che fosse l'horror. Martino ci ha trovato i soldi per Paura solo a patto che facessimo Song'e Napule. E comunque aveva ragione Giampaolo". "A Napoli ogni secondo che passi, ogni passo che fai trovi qualcosa che ti ispira" ragiona Antonio. "Song'e Napule è il film che ci ha fatto conoscere Napoli, Ammore e malavita quello che ci ha fatto innamorare".
Ammore e malavita: i Manetti Bros. e Giampaolo Morelli presentano il loro musical neomelodico pop
Ammore e malavita (2017)
E poi c'è il loro capolavoro, un film fatto in stato di grazia, Ammore e malavita. Un film dove la protagonista, Serena Rossi, a un certo punto si ferma e si mette a cantare una canzone in napoletano. E poco dopo ci accorgiamo che è What A Feeling, la canzone di Flashdance. Anche su questo film, e sulla canzone, i fratelli Manetti hanno tanto da raccontare. Qual è stato il segreto del film? "L'incoscienza" risponde divertito e incredulo Marco. "Ci siamo innamorati di Napoli e delle sue canzoni, abbiamo fondato la nostra società con Carlo Marchitella, la Mompracem. Volevamo portare quello che avevamo visto a Napoli più in grande. E una visione folle, incosciente secondo noi poteva essere il musical". Ma come fare a creare un musical all'Italiana? Il segreto sta nello studio. "Ci siamo messi a guardare tutti i musical della storia del cinema e abbiamo cronometrato quanta musica e quanto recitato c'era in ognuno" ci svela Marco Manetti. "E abbiamo visto che l'equilibrio perfetto ce lo aveva Grease. Nei musical italiani difficilmente le canzoni erano veramente parte della storia, mentre le parole devono portare avanti il racconto. Nel nostro film se togli le parole di quella canzone non capisci la storia". "Ci siamo accorti che non si poteva scrivere un musical senza avere i testi delle canzoni" continua. "Il paroliere, Nelson, si dedicava ai testi, ma dovevamo scrivere noi le canzoni, dargli gli spunti. Così ogni volta che c'era una canzone da scrivere cercavamo delle canzoni esistenti che secondo noi erano adatte e dicevamo a Nelson di scrivere i testi su quella canzone, per capire se ci piaceva il testo. E noi davamo i testi e Pivio e Aldo De Scalzi, autori delle musiche. Un giorno ci arriva un messaggio vocale di Nelson in cui cantava il suo testo su What A Feeling. E noi abbiamo detto: non riusciremo mai ad avere questo effetto con un'altra canzone. E abbiamo chiesto se potevamo averne i diritti". "È costata molto" rivela Marco. "È stata la star più pagata del film".