I proclami in radio, i vestiti buoni della domenica, le piazze della provincia italiana invase da adunate di bambini che sfilano in ordine e la vetrina di un ristorante che per tutto il film diventa il punto di vista privilegiato sul mondo fuori. Così trentacinque anni dopo il suo esordio con Il grande Blek, Giuseppe Piccioni torna a girare ad Ascoli Piceno, sua città natale, e con L'ombra del giorno (in sala dal 24 febbraio) realizza un'opera crepuscolare, potente dove le piccole storie diventano lo spioncino per affacciarsi sulla grande Storia. È un cinema di atmosfere e suggestioni quello che vi raccontiamo nella recensione de L'ombra del giorno, dove contano non i facili sentimentalismi ma gli interrogativi, la riflessione che dal nostro passato si riverbera sul presente. Tutto intorno si allunga l'ombra cupa di una minaccia, la dialettica del sospetto domina i rapporti tra i personaggi, e Piccioni è in grado di suggerire tutto questo attraverso dettagli, parole centellinate, gesti e simboli disseminati qua e là.
La storia del film: dal rigore della scrittura alla potenza delle immagini
Fuori da ogni retorica della memoria L'Ombra del giorno racconta il clima di un'epoca, che il regista di Luce dei miei occhi rievoca con una potenza comune a pochi: merito di una sceneggiatura solida e equilibrata scritta con Gualtiero Rosella e Annick Emdin. Insieme creano una scrittura che nelle parole contiene già tutta la forza del film: dalla caratterizzazione dei personaggi tutti ben strutturati e interpretati alla definizione degli ambienti (la sala del ristorante, l'ampia vetrina che dà sulla piazza esterna, la cantina, il retro cucina), che delineano i luoghi d'azione di un kammerspiel, ma meno claustrofobico di come in realtà non sia un dramma da camera. La storia è quella che Giuseppe Piccioni prova a raccontare guardando attraverso la vetrina del ristorante di Luciano (Riccardo Scamarcio), reduce di guerra e fascista più per sopravvivenza che per convinzione. È il 1938 di un giorno qualunque, in una città di provincia come tante, alla vigilia dell'alleanza dell'Italia con la Germania di Hitler; i tavoli apparecchiati nella sala che dà sull'antica piazza sono quelli del ristorante di Luciano (il set è quello dello storico caffè Meletti, un'istituzione ad Ascoli). Da quella vetrina il protagonista vedrà il paese cambiare, prima attraverso un corteo ordinato di bambini di una scuola elementare, poi nelle adunate di ginnaste ragazzine che si esibiscono sui pattini, infine nelle strade che si svuotano. Sui marciapiedi è un andirivieni di gente vestita a festa, i più piccoli stretti nei grembiuli infiocchettati, gli adulti avvolti negli abiti inamidati delle grandi occasioni, e Luciano a quell'immagine di serenità vuole crederci con tutto se stesso. Sono gli anni del consenso, delle grandi opere pubbliche e delle nuove città sorte "dove prima c'erano solo malaria e miseria".
È un uomo di poche parole Luciano, lo definisce il suo incedere claudicante causato da una ferita alla gamba che si trascina a fatica, uno dei brutti ricordi che gli ha lasciato la guerra; tornato dal fronte ha preferito rimanere in disparte, lontano dalla cieca militanza e dalle gerarchie del partito, anche se per i fascisti nel suo locale ci sarà sempre posto, perché in fondo hanno fatto "cose buone" e poi "il lavoro è lavoro". La sua vita scorre silenziosa tra i compiti quotidiani all'interno del ristorante a cui si dedica con zelo, finché un giorno fuori dalla vetrina appare una ragazza, Anna Costanzi (Benedetta Porcaroli). Lavorava al servizio di una famiglia di Ascoli, ora non più; chiede se cercano personale, lui la assume: cinque lire al giorno a partire da subito. Anna è una ragazza sveglia, sa parlare, è colta, si vede che ha studiato e il suo arrivo determinerà nella vita di Luciano una profonda rottura e un forte cambiamento: a partire dall'amore che si fa strada tra i due e a cui quell'uomo "fuori dal mondo" aveva rinunciato da tempo. Ma con sé Anna porta anche un segreto che la costringerà ben presto a cercare un posto sicuro, lontano da lì...
La forza delle interpretazioni
Quello tra Luciano e Anna è un amore d'altri tempi, si porta dietro lo struggimento delle grandi storie in bianco e nero un po' Casablanca, un po' La ragazza di Bube. E Piccioni riesce laddove in tanti spesso falliscono: descriverla con un rigore tale da evitare iperboli melense, ma senza nulla togliere alla potenza dei sentimenti che si schiantano sullo spettatore. La forza del film risiede nella sua compostezza, nelle battute lapidarie, nei gesti dei personaggi, negli sguardi, nelle geometrie dei movimenti all'interno dello spazio racchiuso tra la cucina, la cantina, la sala del ristorante e la piazza antistante. Il racconto procede per sfumature di colori: dalle tinte più accese nella prima parte del film che definiscono l'entusiasmo e il consenso generale, a quelle più cupe della seconda, con l'irruzione dei primi spietati gerarchi fascisti, il clima di sospetto, i proclami che rimbombano sommessamente per le strade semi vuote, le immagini oniriche che irrompono sulla scena.
Il resto lo fa il cast di attori, interpreti perfetti delle atmosfere e della parola scritta seppur con qualche perdonabile sbavatura nella cadenza dialettale: dai protagonisti principali (Benedetta Porcaroli e Riccardo Scamarcio) tanto misurati quanto dolenti, ai comprimari (Lino Musella, Waël Sersoub, Vincenzo Nemolato, Valeria Bilello, Sandra Ceccarelli, Antonio Salines, Costantino Seghi). Memorabile l'immagine sommessa del professore interpretato da Salines (scomparso lo scorso giugno e doverosamente ricordato anche nei titoli di coda): a lui il film affida una delle sue frasi manifesto, "disobbedire a una legge sbagliata a volte è un obbligo".
Conclusioni
Concludiamo la recensione de L’ombra del giorno ribadendo quanto detto fino a ora: Giuseppe Piccioni si conferma ancora una volta autore di un cinema di atmosfere e suggestioni. Qui compie un ulteriore passo avanti e attraverso un’opera rigorosa ripercorre il clima di un’epoca; lo fa partendo da una storia d’amore che ha lo struggimento degli amori in bianco e nero, senza scivolare in facili sentimentalismi. Restano una profonda riflessione che dal nostro passato si riverbera sul presente e un diffuso senso di inquietudine che si allunga sull’intero film.
Perché ci piace
- La capacità di raccontare la grande Storia attraverso le piccole storie dei personaggi in scena.
- L’abilità con cui il film suggerisce e rievoca il clima, le atmosfere cupe dell’epoca fascista.
- La scrittura solida che nelle parole contiene già tutta la forza e il rigore del film: dalla caratterizzazione dei personaggi alla definizione degli ambienti di questa sorta di kammerspiel, solo un po’ meno claustrofobico.
- La forza degli interpreti, tutti misurati e in parte.
Cosa non va
- Chi si aspetta una classica storia d’amore fatta da strappi e sospiri, potrebbe rimanere deluso.