È difficile spiegare cosa abbia rappresentato Michael Jackson per i teenager degli anni Ottanta; così come, probabilmente, è altrettanto difficile percepire appieno la portata di tale fenomeno per chi non l'abbia vissuto in maniera diretta. E la parabola professionale di Jackson è un elemento di cui abbiamo dovuto per forza di cose tenere conto nella nostra recensione di Leaving Neverland, il documentario co-prodotto da HBO e Channel 4, presentato al Sundance Film Festival 2019 e in onda in Italia il 19 e 20 marzo su Nove. Perché nel 1987, data d'inizio del percorso sviluppato dal regista Dan Reed nel proprio film, Michael Jackson non è 'soltanto' la popstar più famosa del pianeta: è il ragazzo-prodigio che a soli ventiquattro anni, con l'album Thriller, aveva rivoluzionato letteralmente il concetto di musica pop; è il personaggio in cui la figura dell'artista si è fusa con l'icona, tanto da renderle indistinguibili; è il viso sorridente e benevolo di We Are the World, ma al tempo stesso l'individuo sfuggente e inavvicinabile già trasfiguratosi nel mito. Possono sembrare espressioni iperboliche, eppure fino all'inizio degli anni Novanta, prima degli scandali, della chirurgia plastica e dei processi, Michael Jackson è stato esattamente questo.
Leaving Neverland: Wade Robson e James Safechuck alla corte del re del pop
La suprema statura divistica di Michael Jackson è l'assioma da cui bisogna partire di fronte a un prodotto quale Leaving Neverland, realizzato in prossimità del decimo anniversario della scomparsa del "re del pop": un assioma che non si limita a fornire un contesto al racconto di Wade Robson e James Safechuck, entrati in contatto con il cantante all'epoca dell'album Bad, ma che costituisce di per sé uno dei temi al cuore del documentario di Dan Reed, suddiviso in due puntate per una durata complessiva di quattro ore. La celebrità, una sorta di sfavillante realtà virtuale, esercita infatti un irresistibile potere di attrazione sulle famiglie di Robson e Safechuck, che all'improvviso si vedranno accolte all'interno della vita privata di Michael Jackson: un incontro dal carattere fiabesco, tanto più se ad esserne protagonisti sono dei bambini.
James Safechuck, ingaggiato a nove anni per girare con Michael Jackson lo spot della Pepsi Cola del 1987, introduce il documentario con queste parole: "Era all'apice del suo successo e tutti volevano incontrare Michael o stare con Michael. Era già straordinario. E a un certo punto sei tu a piacergli". Wade Robson, invece, ha appena sette anni quando il suo cammino si incrocia con quello di Michael Jackson, del quale è un piccolo fan adorante in grado di imitarne movenze e passi di danza. James e Wade saranno scelti per aver accesso al mondo di Jackson: per ballare sul palco con lui durante il tour di Bad; per essere invitati (con i loro familiari) nella villa della popstar e nelle suite degli hotel più lussuosi d'America; per ricevere attenzioni, tenerezze e confidenze con costanza quasi quotidiana; e, nelle loro parole, per diventare oggetto di abusi sessuali rievocati nei dettagli più disturbanti.
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L'ombra della pedofilia e la versione delle vittime
Leaving Neverland, è bene chiarirlo subito, non è propriamente un'opera d'inchiesta, o perlomeno non a trecentosessanta gradi: la ricostruzione dei fatti avviene unicamente per voce delle due presunte vittime, oggi adulte, a cui vengono accostate le interviste ad alcuni parenti di Robson e Safechuck. È il principale bersaglio delle contestazioni rivolte a Dan Reed, il quale in compenso, pur non offrendo un "controcampo" sulla vicenda (impresa semi-utopistica, del resto), cerca di mantenere un approccio quanto più possibile lucido, senza ricorrere a forzature o sensazionalismi. Il suo film, in sostanza, ci propone questo: una versione dei fatti, una versione che oggi è priva di valore giuridico ma il cui ascolto, al di là delle singole opinioni, ha comunque un peso fondamentale nel nostro tentativo di comprendere. Comprendere cosa sia un abuso, quali fattori entrano in gioco e quali conseguenze possa determinare, perfino a decenni di distanza.
In tale aspetto risiede l'importanza di Leaving Neverland: nella calma e nella precisione, lontane da invettive o intenti forcaioli, con cui Wade Robson e James Safechuck descrivono il loro rapporto con Michael Jackson, in tutte le sue sfumature. Un rapporto di luci e di ombre, in cui gli atti di pedofilia denunciati dai due uomini convivono con momenti di felicità e di dolcezza, tanto da generare una profonda dipendenza reciproca. Un rapporto in cui agiscono meccanismi di potere quasi impercettibili: l'ansia di mantenere il ruolo di "favoriti" accanto all'amato Michael, la sofferenza nel vedersi rimpiazzati da altri coetanei (incluso il più illustre di tutti, Macaulay Culkin) e la decisione di testimoniare a favore del cantante nel 1993, durante il processo per l'accusa di abusi sul tredicenne Jordan Chandler, il primo caso in cui l'ombra della pedofilia avrebbe intaccato il "mito".
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E poi le lacrime di Wade Robson, diventato nel frattempo egli stesso un mini-divo in qualità di coreografo per Britney Spears e gli NSYNC, in occasione del funerale di Michael Jackson, verso il quale Robson aveva continuato a nutrire un affetto nato proprio da quella relazione malata fra un trentenne e un bambino. È la contraddizione più sorprendente del film, quella che è necessario capire per cogliere il senso delle quattro ore di visione. Perché se nessuno di noi potrà mai affermare di conoscere la verità assoluta sugli eventi in questione, è ben più utile conoscere con esattezza le dinamiche di un abuso: senza affidarsi alla facile retorica sul "mostro", ma affrontandone invece tutta la complessità. Quella complessità che, se ignorata, può indurre le vittime a un processo di rimozione, a un silenzio carico di vergogna o, viceversa, a non ricevere la doverosa credibilità.
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Michael Jackson, l'uomo e l'icona: è caduta una stella?
Ma in Leaving Neverland, una storia di abusi si intreccia in maniera inestricabile con l'elemento della celebrità: la fascinazione per lo show business è la sirena che cattura Wade, James e le loro famiglie, che impedisce ai genitori di accorgersi della minaccia a cui sono sottoposti i propri figli, ma la fama è pure il mostro che ha finito per fagocitare Michael Jackson, l'incarnazione più perfetta dello star power. In quest'ottica, Leaving Neverland è anche un film sull'icona di Jackson: un'icona che avrebbe vampirizzato l'essere umano, prima trasformandolo nell'enfant prodige dei Jackson 5, poi rendendolo la popstar di maggior successo di sempre, quindi isolandolo nella proverbiale "gabbia dorata" e facendogli perdere il contatto con la realtà.
Perché nell'immaginario culturale Michael Jackson è stato anche il divo eccentrico e solitario, con bambini e adolescenti che apparivano essere la sua unica compagnia; l'uomo che anno dopo anno ha deturpato il proprio volto, riducendolo a una maschera di innaturale pallore; e la superstar inghiottita in una spirale autodistruttiva fino alla sua morte, il 25 giugno 2009. Un'epopea di splendori e di miserie, di trionfi e di cadute che, dieci anni dopo quel che sembrava l'ultimo capitolo, ha visto riaccendersi i dibattiti e le polemiche. Mai come in questi giorni i sospetti di pedofilia su Michael Jackson hanno riscosso una tale eco, polarizzando le reazioni e ponendoci davanti a un ulteriore problema: la capacità di distinguere fra l'essere umano e l'artista. Perché qualunque sia il nostro giudizio sull'individuo (sempre che ci si senta in grado di elaborarne uno), che si tenda alla commiserazione o alla condanna, resta innegabile il talento del Michael Jackson artista: un talento che ci ha regalato alcune fra le pagine più entusiasmanti della musica pop dell'ultimo mezzo secolo.
Un'eredità posta di fronte alla prospettiva di una damnatio memoriae in parte già in atto: dalle radio che bandiscono Billie Jean, Beat It e Black or White alla cancellazione dell'episodio de I Simpson in cui Michael Jackson compariva come doppiatore. Il successo non può mai diventare veicolo di impunità (e in molti casi purtroppo lo è stato), ma è bene ricordare che sotto processo devono essere mandate le persone, non l'arte: un patrimonio collettivo che, per fortuna, va ben al di là del proprio creatore e che merita di essere difeso a spada tratta.
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