Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, tra i tanti film che il cinema italiano produce tra gli anni Sessanta e Settanta, è solo uno degli esempi tra i più eclatanti di una pratica cinematografica che tende a pensare il cinema come mezzo di diretto intervento politico, volto, cioè, non solo a far conoscere e divulgare i meccanismi deviati della società capitalistica dei consumi - che aveva cambiato l'Italia da una decina d'anni a quella parte - ma anche a suggerire allo spettatore modi concreti di resistenza, se non, addirittura, di contrasto e ribellione rispetto all'invadenza sempre più entrante, nella vita della società e dei singoli individui, delle occorrenze di quei meccanismi. In tal senso, l'opera di Elio Petri, che aveva esordito con un film semplicemente di costume, L'assassino, del 1961, ed era proseguita con una delle pellicole tra le più rigorose degli anni Sessanta, I giorni contati, del 1962, riflessione sulla morte degna delle cose più belle di Michelangelo Antonioni o di Ingmanr Bergman, vira, nel '67, su temi di impegno civile e politico, verso quello che, allora, in pieno '68, venne definito col nome un po' vetusto di cinema militante. Così, prima di Indagine, il cineasta romano aveva diretto un film che, con grande onestà e rigore, si occupava - tra i primi in Italia - del fenomeno Mafia, senza abbandonarsi, peraltro, ai rilevi folkloristici cui, troppo spesso, era stato ridotto il fenomeno, analizzandolo, invece, nelle sue perniciose dinamiche interne e nei suoi rapporti col Potere Politico: parliamo, ovviamente, di A ciascuno il suo, tratto dal romanzo di Sciascia, che segna anche l'inizio della proficua collaborazione tra il regista e l'attore Gian Maria Volonté. Il successivo Indagine è film militante perché tende a scardinare, col ricorso alle cifre stilistiche del grottesco e dell'assurdo, il rispetto quasi devoto verso un Potere Poliziesco e Politico che è del tutto complementare, secondo il punto di vista della Sinistra di quegli anni, alle emergenze del Potere Economico, emergenze che dirigono la Società orientandola alla divisione tra sfruttatori e sfruttati e impedendo, così, la realizzazione della Rivoluzione sociale. Negli anni seguenti, Petri non abbandonerà l'intento di favorire la Rivoluzione e, nel '71, con La classe operaia va in paradiso, denuncerà le lusinghe antirivoluzionarie di certo capitalismo buonista; nel '73, con La proprietà non è più un furto, illustrerà la vanità di qualsiasi ribellione che sia nulla più che individuale; nel '76, infine, con il suo film più enigmatico, Todo Modo, tratto ancora da un romanzo di Sciascia, marchierà, col segno della morte, una classe politica, quella democristiana, che gli apparirà, oramai, risucchiata da un processo di implosione destinato alla rovina e al disfacimento.
Sulla base di ciò che si è detto a proposito di Petri - cineasta, peraltro, assai diseguale negli esiti -, può risultare evidente la differenza che passa tra questa ondata sessantottina di cinema politico e quel neorealismo postbellico che aveva rinnovato, d'un tratto, tra il '45 e il '50, intenti, pratiche e stile della Settima Arte: infatti, se nel ventennio Sessanta-Settanta militanza vuol dire, in primis, presa di coscienza e, di seguito, acquisizione attraverso il cinema di pratiche rivoluzionarie, nel periodo del neorealismo la scoperta dell'impegno civile _aveva avuto, soprattutto, il significato di _testimonianza, di vicinanza alla realtà, di modo che, finalmente, di quella realtà si giungesse a dare non più un'immagine anodina ed edulcorata ma il ritratto fedele, diagnostico ed impietoso. Si spiegano, così, la teoria del pedinamento del reale, formulata da Cesare Zavattini, che tanto ha influito sul quel cinema e anche sulla letteratura coeva, e le opere che, da quel pensiero, in qualche modo, hanno avuto origine: facile riferirsi a Roma città aperta, del '45, a Paisà, del '46, e a Germania anno zero, del '47, tutti di Roberto Rossellini, a Sciuscià, del '46, e Ladri di biciclette, del '48, di Vittorio De Sicao, anche, a film già diversi come Cronaca di un amore, del '50, di Michelangelo Antonioni, oppure a I vitelloni, del '53, di Federico Fellini. Nella maggior parte delle opere di questo periodo non si ha l'ambizione di suggerire una prassi politica ma, piuttosto, si vuol raccontare le cose come stanno, dopo vent'anni di dittatura, che aveva calato, su ogni forma culturale, una sorta di maschera impenetrabile. Certo, negli anni immediatamente post-bellici, qualche opera si dichiara immediatamente schierata in senso progressista o, addirittura, rivoluzionario: basti pensare a La terra trema, del '48, di Luchino Visconti, rilettura in chiave marxiana de I Malavoglia di Verga; o a Riso amaro, sempre del '48, di Giuseppe De SantisGiuseppe De Santis, che coniuga gli stilemi del melodramma/noir hollywoodiano a una serrata presa di posizione sul mondo del lavoro, marxianamente interpretato come bolgia degli sfruttati in attesa di riscossa. Negli anni successivi, gli autori del cinema italiano prenderanno ciascuno strade diverse; qualcuno si dedicherà alla commedia, ove i conflitti sociali troveranno espressione solo in vista di una loro composizione finale e pacificatoria - è il caso di Dino Risi, Luigi Comencini, Mario Monicelli e di mille altri; qualcun altro concentrerà l'attenzione sulle nuove tematiche dell'alienazione esistenziale dentro un mondo sempre più reificato, con sguardo acuto e penetrante, del tutto privo, però, dell'urgenza di suggerire una soluzione socio-politica al problema - e sarà il caso di Antonioni; altri ancora ricondurranno il neorealismo al realismo, con grandi affreschi storici correttamente scanditi dalla logica del materialismo dialettico, eppur lontani, perché fin troppo ricchi di suggestioni diverse, dalla necessità incombente di intervenire sul reale - si pensi, ad esempio, a Senso, del '54, di Luchino Visconti; qualcun altro racconterà il disagio degli anni Cinquanta e dei primi Sessanta coivolgendo talmente il sé narrativo dentro la materia della narrazione da dar vita a splendide opere di sagace poesia e pungente ironia: opere troppo rapprese attorno all'_Io narrante _per poter ambire a suggerire modi e criteri per un cambiamento del reale sociale - e il riferimento, in tal senso, non può che andare all'_opera omnia _di Federico Fellini.
Sarà solo con gli anni Sessanta che, in Italia, come un po' in tutto il mondo, tornerà a dir la sua un cinema incapace di contentarsi dell'analisi; un cinema talmente presuntuoso da voler aggredire la realtà tutta d'un fiato, fino ad azzardarsi, in molti casi, a indicare le vie della sovversione. E, in tale contesto, Petri è solo un nome fra i tanti.
Si comincia, forse, col Salvatore Giuliano di Francesco Rosi, del '62, ove l'uso intrecciato di finzione e documentario nel racconto della parabola delittuosa del bandito siciliano mette a nudo il nodo economico e politico che ha portato all'affermazione della Mafia e, dialetticamente, le strategìe atte a colpirla; con Le mani sulla città, del '63, il discorso di Rosi si fa ancora più profondo, perché «i personaggi e i fatti sono immaginari ma autentica è la realtà che li produce», dice la didascalìa d'inizio film, a comporre un'opera didattica che insegni a difendersi dalle malversazioni del Potere; didatticismo che tornerà in primo piano ne Il caso Mattei, film di Rosi del '72: mimando le modalità di una grande inchiesta giornalistica, il film avrà l'ambizione di porre le basi per una reale comprensione dei grandi e perversi intrecci del Potere economico internazionale, così da ispirare allo spettatore comportamenti di denuncia e di obiezione.
D'altro verso, di fronte al disagio prodotto dalla società dei consumi, Marco Ferreri - almeno nelle sue opere maggiori - sembrerà proporre una soluzione sterile e masochistica, densa di istinto di morte: quest'ultimo, però, rappresenterà la carica eversiva definitiva e nullificante, capace di annientare finalmente un tessuto sociale in completo disfacimento così da produrre la palingenesi di un mondo nuovo; la pulsione di morte potrà essere attiva e condurre alla fuga liberatoria, come in Dillinger è morto, del '69, o, più spesso, si coniugherà al passivo e vedrà nell'autoannullamento l'unico rimedio possibile, come ne La cagna, del '72, ne La grande abbuffata, del '73, in Ciao Maschio, del '77, e in Chiedo asilo, dell'80.
D'altronde, l'autodistruzione concepita come momento di passaggio dal vecchio al nuovo sarà tema tipico di molto cinema del periodo. Si ricordino Accattone, del '61, film d'esordio di Pier Paolo Pasolini, elegìa sul mondo degli emarginati: mondo destinato a trovare - forse -, dopo il film e al di fuori di esso, una nuova e più giusta integrazione sociale e culturale. E, ancor di più, si pensi a I pugni in tasca, film del '65 di Marco Bellocchio, opera prima di straordinario impatto, ove la malattia e la morte divengono l'unica salvezza, non solo del personaggio protagonista, epilettico e paranoico, ma anche d'un'intera famiglia borghese - sterminata dal ragazzo -, segnata a fuoco da tare ataviche cresciute in un contesto di agiatezza sociale ed economica.
I più 'rivoluzionari' tra i cineasti italiani degli anni Sessanta e Settanta rispondono, però, soprattutto a tre nomi.
In un ordine che va dal meno furente ai più rigorosi, ecco Bernardo Bertolucci. Prima della rivoluzione, del '64, delinea il ritratto di un intellettuale comunista che non sa andare oltre i limiti di un anticonformismo di maniera; Partner, del '68, è la storia di un Dr. Jekyll sconvolto dagli istinti dinamitardi di un sosia Mr. Hide rivoluzionario; Il conformista, del '70 - da un romanzo di Moravia -, si pone come amara riflessione sulle responsabilità dell'individuo di fronte alla Storia e rilegge il fascismo - per metafora: il tempo presente - non più nei termini di un errore della Storia ma in quelli di un delitto indotto dalla paura della scelta; La strategia del ragno, del '72, ripercorre ancora, e stavolta nell'ottica dei disturbi della personalità che angustiano le nuove generazioni, l'incubo del fascismo; Ultimo tango a Parigi, del '72, al di là delle pruderies che, ancor oggi, invocano lo scandalo, è il grido amaro e disperato di chi, nell'universo ridotto a merce, non trova null'altro che solitudine; e i due episodi del grande melò bertolucciano, Novecento atto I° e Novecento atto II°, entrambi usciti nel '76, sono forse l'unica grande opera che, pur in un clima narrativo fortemente stilizzato, riesce a ricostruire un segmento allegorico significativo della vicenda dei movimenti contadini e operai che, per l'appunto, ha attraversato la storia de novecento italiano.
Ci sono poi gli altri due nomi, i fratelli Paolo Taviani e Vittorio Taviani. Con Sovversivi, del '67, i due autori pisani raccontano la storia di quattro personaggi, ciascuno dei quali, nel proprio ambito di vita, compie un'autentica rivoluzione personale, gettando all'aria convinzioni, abitudini e privilegi che si palesano, oramai, in aperto contrasto con le spinte di rinnovamento che giungono dal profondo della società; Sotto il segno dello scorpione, del '69, è un'allegoria moderna che analizza, nel dettaglio, entusiasmi e inquiedutini di un microcosmo sociale, collocato in un tempo senza tempo, che, d'improvviso, si trova a compiere il passaggio dal vecchio al nuovo; San Michele aveva un gallo, del '71, risente già del clima di riflusso: e studia l'esperienza fallimentare di un anarchico dell'ottocento, che si scontra, senza preavviso, con la nascita dei partiti politici, portatori d'organizzazione eppure inibitori degli slanci rivoluzionari più puri; infine, Allonsanfan, del '74, segna il momento della stasi postsessantottina, e racconta - anche stavolta in modo allegorico - le vicissitudini di un rivoltoso ormai stanco, perseguitato da un passato di insuccessi e fallimenti, e a tal punto determinato a recuperare l'agiatezza che gli viene dalla nascita nobiliare da tradire, con spietata risoluzione, i compagni di un tempo. Come si vede, un tragitto coerente quello dei Taviani, che partono dalle speranze di un concreto futuro rivoluzionario per giungere alle amarezze di un rinnovamento che non c'è stato e mai ci sarà.
I film più significativi di questa temperie di progresso e cambiamento che ebbe per protagonisti soprattutto gli studenti e gli operai del sessantotto, però, sono soprattutto due: I dannati della terra, diretto nel '68 da Valentino Orsini: film antinarrativo per eccellenza che ricostruisce le vicende del Congo progressista e democratico di Lumumba e, a forza di slogan agit-prop che si dilatano sullo schermo, declama e dichiara la necessità della lotta armata; e, infine, quel Zabriskie Point girato nel '69 da Michelangelo Antonioni nei deserti americani: film che raccoglie, in modo impareggiabile, i sentimenti di smarrimento, precarietà, rabbia, illusione e desiderio dei giovani dell'epoca, nel lungo viaggio attraverso l'America e nella grandiosa e simbolica esplosione della sequenza finale, che è - tout court - l'esplosione di un'intero sistema di valori.