Recensione Babel (2006)

I limiti del cinema di Iñárritu non sono sufficienti a screditare un film che riesce a raccontarsi con un respiro ed una ricchezza visiva indubbiamente importanti.

La babele polifonica

Quattro storie e quattro universi concatenati compongono il terzo film di Alejandro González Iñárritu, in concorso a Cannes 2006. Due turisti americani (Brad Pitt e Cate Blanchett) sono in vacanza nel deserto marocchino, quando la donna viene colpita, dentro un pullman, da un colpo di fucile. Sperduti in un paesino del Marocco, troveranno solo soccorsi di emergenza, nell'attesa di un elicottero che li porti lontano, mentre già si ipotizza un attacco terroristico. Nel frattempo la baby sitter messicana dei due figli in California si ritrova ad accompagnare Santiago (Gael Garcia Bernal) in Messico per il matrimonio di un comune amico. Al ritorno i poliziotti del confine americano sospettano tanto della situazione da indurre Santiago ad una pericola fuga e, inseguito dalla polizia, sarà costretto ad abbandonare nel deserto governante e bambini. A Tokyo invece Chieko (Rinko Kikuchi) è la figlia sordomuta del ricco uomo che ha regalato il fucile incriminato ad un amico marocchino. Incapace di relazionarsi con il prossimo e scossa dal suicidio della madre Chiedo cerca un contatto con gli uomini attraverso la provocazione sessuale.

Diciamolo subito: Babel soffre del difetto più evidente del cinema di Iñárritu, ovvero di un'eccessiva cerebralità ed un certo compacimento nelle scelte narrative e formali. Un peccato originario contro il quale da sempre si scaglia - con punte di autoritario moralismo martirizzante - la critica più intransigente, con in tasca il manuale della sincerità di un autore. Tali limti, più che fare di Iñárritu un regista falso, un bluff, un sopravvalutato e così via, spostano l'asse del suo cinema, ne minano la sostanza, lo avvicinano al formalismo e alla pretestuosità delle scelte. Ma in Babel questi limiti, per quanto presenti (nonostante la relativa rinuncia all'inutile frammentazione temporale di Amores Perros e soprattutto 21 grammi - Il peso dell'anima) ma non sufficienti a screditare un film che riesce a raccontare con un respiro ed una ricchezza visiva indubbiamente importanti.

Il regista messicano segue i suoi personaggi indagandone la liminarità del percorso esistenziale, l'ontologica diaspora tra la sicurezza del quotidiano e l'improvviso inabissamento allo stato di natura, più che l'improprio concetto di destino. In questo senso Babel rifugge l'idea stessa di cinema politico, nonostante si confronti con il tema dell'evocazione pregiudiziale del terrorismo, con il classismo e la subalternità economica (il rapporto Usa-Messico) e il trattamento della devianza nella parentesi giapponese, che è a tutti gli effetti fuori dalla sintesi discorsiva del film e allo stesso tempo quella che lancia nuovi segnali nel suo cinema. Nel farlo, Babel riesce a non cadere nella trappola del pietismo e della retorica affidando il motore delle vicende al caso che sconvolge il quotidiano (lo sparo del bambino in Marocco). Progressivamente però, il regista messicano si allontana dal seminato e si tira indietro sottraendo forza al suo discorso e beffardamente lo fa giungendo ad un climax stavolta aperto all'emozionalità più che alla cerebralità, tutto giocato a suggerire la superiorità dell'immagine sul parlato e l'empatia con le sofferenze della giovane sordomuta giapponese.