Recensione Green Zone (2010)

E' interessante il tentativo di Greengrass di coniugare intrattenimento e impegno, cinema mainstream e ricostruzione cronachistica: ma il climax costruito dal film si basa su sviluppi che lo spettatore conosce bene.

L'impegno di Bourne

Continua a occuparsi di Iraq, il cinema americano. Seppur non ancora penetrato a fondo nella coscienza (collettiva) cinematografica al pari di quello vietnamita, il conflitto iracheno, tuttora in corso, ha tuttavia catalizzato l'attenzione di molti importanti cineasti: ultimo in ordine di tempo l'esperto Paul Greengrass con questo Green Zone. Laddove registi come Brian De Palma e Robert Redford, rispettivamente coi loro Redacted e Leoni per agnelli, si attenevano scrupolosamente alle regole del cinema di impegno civile, e Paul Haggis nel suo Nella valle di Elah giocava la carta del thriller, l'ex-giornalista Greengrass sceglie una via di mezzo, forte dell'esperienza maturata nel blockbuster movie con gli ultimi due episodi della saga di Jason Bourne, e di uno script ispirato al libro-inchiesta di un altro giornalista, l'americano di origini indiane Rajiv Chandrasekaran. E' interessante, anche se non nuovo, il tentativo di Greengrass di coniugare intrattenimento e impegno, cinema mainstream e ricostruzione cronachistica, supportato da una regia nervosa e coinvolgente che ricorda a tratti quella di Kathryn Bigelow nel celebrato The Hurt Locker.

La storia, ambientata nel 2003, è incentrata su un plotone militare statunitense guidato dall'ufficiale Roy Miller (interpretato da Matt Damon) incaricato di ritrovare i depositi di armi chimiche la cui presenza avrebbe dato origine al conflitto. Dopo una serie di ricerche infruttuose, la squadra viene instradata da un informatore iracheno sulle tracce di un alto esponente del regime, che nasconde un segreto che lo stesso stato maggiore americano sta cercando in tutti i modi di nascondere.
La struttura da thriller della sceneggiatura (a cui ha collaborato, oltre all'autore del libro, il veterano Brian Helgeland) è probabilmente il principale, fisiologico punto debole del film. Nel momento in cui le distorsioni di informazioni e le vere e proprie bugie che furono all'origine della guerra sono diventate infatti di dominio pubblico, ormai riconosciute anche da settori della stessa (ex) amministrazione americana, un film che basa la sua costruzione narrativa su rivelazioni che tali non sono più, non può che apparire come fuori tempo massimo. Fa anzi un po' sorridere l'ostinazione iniziale del personaggio di Damon nel perseguimento del suo scopo, facendolo quasi apparire, a dispetto delle intenzioni dello script, come una specie di Candido moderno. Il climax costruito dal film, basato su sviluppi che lo spettatore conosce bene nelle loro linee essenziali, finisce così per perdere la sua ragion d'essere.
Resta tuttavia l'ottima confezione del prodotto. Greengrass conosce bene il mestiere e lo mostra ancora una volta, sia quando deve portare lo spettatore nel cuore del conflitto, con largo uso della macchina a spalla e di un approccio semidocumentaristico, sia quando riprende in modo impeccabile, nel finale, un inseguimento al cardiopalmo. L'ottima fotografia notturna, con la grana esibita su un'immagine dall'aspetto programmaticamente povero, contribuisce a rendere bene la pericolosità del territorio iracheno. Damon risulta leggermente statico, per un personaggio che necessitava forse una caratterizzazione migliore, e probabilmente le due ore tonde di lunghezza finiscono per nuocere al film nel suo complesso; il finale, nella sua pomposità declamatoria, conferma il non perfetto equilibrio tra le due anime della pellicola. Restano difetti tollerabili se si vuole vedere il film come puro thriller d'azione, e comunque subordinati al suo limite principale, ovvero la sua pretesa di essere (anche) un'inchiesta su un argomento di cui si sa già molto. Ma i fans dell'ex-Bourne, probabilmente, potranno dirsi soddisfatti.

Movieplayer.it

3.0/5