Recensione The Horsemen (2009)

Nel film si gioca col terrificante sostrato caratteriale degli spietati assassini, portati per l'occasione a identificarsi con i Quattro Cavalieri dell'Apocalisse.

L'apocalisse può attendere

Concepito a ridosso di altre fortunate operazioni di macelleria, dalla prolifica serie inaugurata con Saw - L'enigmista fino a Hostel di Eli Roth (con relativo sequel), The Horsemen fatica a tenere il passo di tali modelli, non riuscendo a eguagliarne né l'efferatezza né il carattere disturbante di certe scelte narrative. Eppure, non manca certo un tocco morboso alla pellicola diretta da Jonas Åkerlund, regista già molto attivo nel settore dei videoclip, al quale si devono anche Spun (con Mickey Rourke, Jason Schwartzman e Mena Suvari) e il documentario su Madonna intitolato I'm Going to Tell You a Secret. Ma non è esaminandone a fondo il pedigree che scopriremo perché nel film del cineasta di origine svedese la morbosità stenti a tradursi in genuina tensione.

I limiti di The Horsemen risiedono principalmente nella scarsa convinzione con cui è stato elaborato un soggetto potenzialmente scioccante, penalizzato però dalla scarsa cura dei dialoghi, nonché da un approfondimento psicologico di personaggi e situazioni tipicamente borderline che in certi frangenti sfiora il ridicolo. Se a questo aggiungiamo l'impronta standardizzata di una regia che procede a corrente alternata, illudendo lo spettatore con la crudeltà delle primissime scene per poi ripetersi banalmente a ogni uccisione, la frittata è fatta.

Quanto agli spunti morbosi cui accennavamo prima, il plot ne è pieno. Si gioca infatti col terrificante sostrato caratteriale degli spietati e giovanissimi assassini, portati per l'occasione a identificarsi con i Quattro Cavalieri dell'Apocalisse; sono le inquietanti profezie di San Giovanni citate nella Bibbia a guidarne le azioni, azioni caratterizzate da un enorme sadismo verso vittime non sempre innocenti, così come da una (più o meno) latente pulsione autodistruttiva. Tra gli strumenti di cui costoro si servono per infliggere dolore spiccano attrezzi non così diversi da quelli noti ai cultori del piercing estremo e di simili mode, utilizzati qui per appendere a grossi ganci le vittime, sottoposte poi ad altre sofferenze, fisiche e mentali. Il mix di modi angelici e pensieri crudeli ravvisabile nei carnefici, perlopiù adolescenti traumatizzati da pessime esperienze famigliari, sarebbe stato un elemento molto valido da sviluppare e portare alle estreme conseguenze. Peccato che ciò non accada, per via delle forti limitazioni di una sceneggiatura troppo raffazzonata e volendo anche degli interpreti.
La stessa Zhang Ziyi, giovane star cinese altrove molto brava, si concede qui un florilegio di sguardi cattivi e mosse sinuose che alla fine, invece di spaventare, diventano caricaturali. Altri adolescenti perversi dallo sguardo spiritato fanno capolino nel racconto, senza lasciarvi alcun segno. Tutto ciò mentre il buon Dennis Quaid tenta di dare spessore alla classica figura del detective che si accorge fuori tempo massimo di aver sacrificato al lavoro gli affetti famigliari, facendo però naufragare il suo personaggio in un mare di situazioni stereotipate e altrettanto superficiali scambi di battute. Si arriva così, con passo sempre più stanco, a quelle rivelazioni finali che hanno ben poco di apocalittico, se non l'assenza di reale drammaticità.