Il rapporto tra Martin Scorsese e il cinema western sboccia, come per gran parte degli appassionati del genere nati in Nordamerica intorno alla metà del Novecento, a maggior ragione se desiderosi di intraprendere una carriera nel cinema, con John Ford. Il cineasta newyorkese lo ha spesso citato nei suoi primi film fino a connettersi con lui in modo indissolubile grazie a Paul Schrader, il quale, nello scrivere la sceneggiatura di Taxi Driver, ha elaborato uno dei più felici (e riconosciuti) remake di Sentieri Selvaggi.
Eppure Martin Scorsese non si è mai approcciato direttamente al genere western, pur riproponendo delle strutture provenienti da quel tipo di cinema (il triangolo tra i protagonisti, lo straniero e il mondo da scoprire o la terra da conquistare, il confronto/scontro con l'altro per trovare se stessi e il proprio posto). Per arrivare a metterci mano ha dovuto, a 80 anni, accomiatarsi, con The Irishman, da quell'universo fatto di violenza, furore e passione smisurata, anche se, a ben vedere, il suo Killers of the Flower Moon (qui la nostra recensione) non è propriamente un western inteso come racconto di frontiera, anzi, forse lo è, ma costruito al contrario.
Un po' perché gli elementi da cui il regista si è allontanato sono tipici del genere, quasi vitali oseremmo dire, importanti anche solo per poter essere rielaborati, superati o anche frustrati (come ha fatto Ford nel film sopracitato) e un po' perché il western è un cinema di scoperta, quindi di movimento e di viaggio, mentre Scorsese fa tutto l'opposto, parlandoci di un arrivo, rimanendo fisso in un posto già scoperto, "domato" e regolamentato dalla nuova era e dove è l'autoctono ad essere lo straniero. In questo caso si avvicina molto di più all'idea strutturale de I cancelli del cielo di Michael Cimino, il film che segnò la fine della New Hollywood, nonostante sia evidente come il cineasta newyorkese abbia deciso di soffermarsi principalmente sulla testimonianza di una pagina nera della Storia, piuttosto che raccontare un'epopea che possa esserne metafora. L'ennesima scelta che sfida l'usuale.
Straniero a casa propria
Di fatto Killers of the Flower Moon non è mai stato pensato per essere un western. Fin dal momento in cui Scorsese ed Eric Roth si sono approcciati al libro di David Grann, Gli assassini della terra rossa: Affari, petrolio, omicidi e la nascita dell'FBI. Una storia di frontiera (Killers of the Flower Moon: The Osage Murders and the Birth of the FBI), hanno infatti provato (da quello che abbiamo potuto capire da fuori) a percorrere la strada del crime o del thriller investigativo. L'idea è stata poi ribaltata da Leonardo DiCaprio, che ha suggerito a Martin Scorsese di cambiare la prospettiva e narrare l'intera vicenda dalla parte degli Osage e dei bianchi arrivati per togliere loro tutto. Oltre a convincerlo ad affidargli il ruolo di Ernst Bunckart.
Gli Osage: chi sono i nativi di Killers of the Flower Moon?
Fin dalle prime scene avviene il capovolgimento citato in apertura di articolo, con la rappresentazione di un treno che giunge alla stazione e non che parte. Questo perché la mutazione, il cambiamento, la scoperta della terra di frontiera benedetta dal Dio denaro che ha ribattezzato il popolo indiano, sporcandone la purezza spirituale, è già avvenuta. Quello del personaggio di Leonardo DiCaprio non è infatti l'arrivo di un outsider, quanto il ritorno a casa di un soldato che dovrà semplicemente aggiungersi ad un ambiente che già è stato creato da chi è venuto prima di lui. Ovvero lo zio Hale di Robert De Niro, che non a caso già si fa chiamare il Re, il che è molto indicativo.
Allora chi è lo straniero? Chi scopre la frontiera? Chi effettivamente si trova nel Nuovo Mondo? In ultima istanza possiamo rispondere facendo il nome di Millie, ovvero il personaggio (il più bello di Killers of the Flower Moon) interpretato da Lily Gladstone, proprio colei che invece è la vera indigena a Fairfax. Quando la pellicola inizia quella già non è più la sua terra né, tantomeno, è la terra della Nazione Osage. Gli stessi membri di spicco tra la sua gente sono rassegnati a questa realtà, che li vede come gli sconfitti, tant'è che l'unico sentimento che riescono a provare è la nostalgia, anche quando vorrebbero provare rabbia, e tant'è che quando decidono di far sentire la propria voce si affidano ad uno dei vincitori. Loro si sentono già fuori dal mondo in cui vivono, malati di melanconia, reclusi in abiti che non gli appartengono. Solo Millie, a cui Scorsese fa dono di scampoli meravigliosi in cui è possibile far respirare di nuovo la sua cultura di origine, di fatto riuscirà ad opporsi in qualche modo al destino.
La Storia e non la storia
Un altro dei ribaltamenti, forse quello fondamentale, che opera Killers of the Flower Moon è raccontare la Storia dell'America narrando la fine di un arco, oscuro, senza l'inizio di un altro, dedicandosi al far luce sui fatti e lasciando da parte la rappresentazione della storia metafora della rinascita. Una scelta che va anche in un certo senso contro un libro che narra, comunque, dell'origine dell'FBI di Edgar Hoover. Questo è l'elemento centrale che fa solo sfiorare l'opera mastodontica di Cimino, ma anche Gangs of New York, il titolo "giro di boa" della carriera di Scorsese, e, in generale, il racconto di frontiera tradizionale, trovando invece il suo parente più prossimo in Quei bravi ragazzi. Anche se qui non c'è assolutamente il medesimo sensazionalismo con cui si racconta il male, tutt'altro.
Killers Of The Flower Moon, Martin Scorsese: "La guerra tra Russia e Ucraina mi preoccupa molto"
Questa volta il cineasta non è mai primariamente interessato al racconto di una genesi di una nuova era, di un Nuovo Mondo, quanto al rendere giustizia, tramite la testimonianza di una pagina nera, a ciò che è diventato cenere senza memoria. L'ultima mezzora del film, inerente al processo, ha una doppia funzione, che è quella di ricordare gli sconfitti e contemporaneamente condannare i vincitori. Per questo motivo avviene la rilettura di una grande parte di quello che è già stato mostrato nella pellicola ed ecco anche il perché del ritmo mescolante che il regista ha deciso di imprimere per l'intero minutaggio. La negazione del compimento della rinascita arriva con il racconto del suo controcampo, dedicato a chi è stato dimenticato, come una pars destruens che diventa più importante del suo opposto. Un ribaltamento totale che Scorsese opera anche andando contro alle logiche che regolano la narrazione contemporanea, abituata a stare dalla parte di coloro che plasmano il futuro, esaltandone le gesta, anche quando le critica.
Killers of the Flower Moon è un racconto di frontiera al contrario in cui un vincitore adopera la sua modalità di narrazione cinematografica per ribaltare il senso del racconto di un genere che per anni ha segnato la narrazione della Storia americana nell'immaginario popolare, non rinunciando mai alla sua capacità evocativa né tantomeno all'epica del racconto popolare che ha sempre mosso la sua filmografia. Il finale è il trionfo di un'operazione che vuole celebrare una memoria reale, tangibile, denunciando in modo definitivo un processo che ha portato i suoi risultati fino ai giorni nostri.