Ieri alla Festa del Cinema è stata senza dubbio la giornata di Jovanotti. Tra le altre cose, sono stati proiettati il film d'animazione Cicogne in missione, che ha portato centinaia di bambini all'Auditorium, e due documentari molto interessanti (Into the Inferno di Werner Herzog e il racconto del tour sudamericano dei Rolling Stones, The Rolling Stones Olé, Olé, Olé!: A Trip Across Latin America), ma il palpabile entusiasmo sul red carpet per l'arrivo di Lorenzo Cherubini ha rappresentato un piccolo grande evento che alla kermesse romana non si vedeva ormai da qualche anno. Il noto cantautore, per molti aspetti il più interessante tra quelli emersi nel panorama pop italiano degli ultimi decenni (soprattutto se si considera la sua capacità di scrittura, in parte forse ancora un po' sottovalutata), ha riempito la Sala Sinopoli in ogni ordine di posto e ha incontrato il pubblico parlando in modo approfondito di 15 film che considera molto importanti.
Come Lorenzo ha tenuto fin da subito a precisare, più che di un viaggio nel cinema da lui amato, si è trattato di un viaggio nel cinema che ha vissuto. Dalla lista di film che ha presentato - di ogni opera è stata mostrata una sequenza da lui scelta personalmente - sono rimasti infatti fuori tantissimi autori che adora (in apertura di incontro ne ha citati a decine, tra i quali Kubrick, Leone, Burton, Gilliam, Iñárritu, Benigni, Herzog, Kiarostami, Kurosawa, Wenders, Zemeckis, Spielberg, Bergman, Boyle, De Sica, Peckinpah, Kitano, Pasolini, George Lucas, Jarmusch, Lynch, Lars von Trier, Chaplin, Larraín e Hitchcock). La selezione si è quindi concentrata su quei film che più di tutti, anche se molto diversi fra loro, hanno per svariati motivi recitato un ruolo importante nella sua vita di bambino, ragazzo o adulto. Andiamo allora alla scoperta di questi 15 titoli, talvolta anche sorprendenti, proponendovi l'originale e appassionato pensiero di Jovanotti su ognuno di essi.
The Blues Brothers (1980)
Mi fa impazzire la scelta di John Landis di far riflettere la tastiera del pianoforte sugli occhiali di Ray Charles. La scena con protagonista Charles mi ha colpito per diverse cose fondamentali. Per esempio la comunicazione tra l'interno del negozio e la strada, che è chiaramente surreale in quanto la musica avviene all'interno del negozio ma si balla anche per strada. C'è quindi un elemento simbolico molto forte. Visivamente poi questo balletto sgangherato è una meraviglia, è pieno di dettagli. Landis ha disposto anche le persone in metropolitana che ballano in lontananza: se analizzate le inquadrature vedrete che non c'è neanche uno spazio dove non succede qualcosa di importante per il racconto. La scelta dei costumi inoltre è impressionante, c'è un lavoro eccezionale. In più in questo film c'è una cosa che mi piace molto nel cinema: ho la sensazione che ci sia della gioia sul set. Poi magari non è vera, però l'impressione che ne traggo da spettatore è che ci sia qualcuno che si sta divertendo.
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La febbre del sabato sera (1977)
Questo film quando è uscito era vietato ai minori di 14 anni. Io ne avevo 12 e sono riuscito a entrare perché ero alto, per cui è il primo film che ho visto illegalmente. Si tratta di un aneddoto personale, però racconta il desiderio forte, feroce che avevo di vedere questo film. Un desiderio dovuto forse alla musica, che era già famosa quando il film è uscito in Italia, e dalla postura di Travolta nel manifesto, che catturava l'attenzione e la fantasia di un bambino. Per me è un film importante perché è un'epifania musicale e di immagini: mi ha fatto innamorare di New York, stimolando in me un desiderio di visitarla, di arrivarci. E poi è un film importante perché non ci credeva assolutamente nessuno. Ha infatti dentro di sé elementi che per il mercato americano dell'epoca erano inconciliabili: il sesso, un linguaggio che è turpiloquio puro, i temi del razzismo, della religione ed è tutto mischiato con la danza. Questa macedonia qui per un produttore dell'epoca era semplicemente impensabile. Poi il film ebbe uno straordinario successo di pubblico. Ma in fondo la ragione per cui ho scelto questo film è ritmico-fisica: la stupenda camminata iniziale potrebbe anche far concludere il film alla fine dei titoli di testa.
Kill Bill: Volume 1 (2003) e Kill Bill: Volume 2 (2004)
Questa sequenza in cui Uma Thurman e Daryl Hannah lottano tra loro è un concentrato di idee incredibili. Non solo visive, ma anche musicali: se chiudete gli occhi e ascoltate solo il suono, capite che è già efficace anche solo per il modo in cui è mixato il sonoro e viene creato il ritmo della scena. A parte l'aspetto tecnico, a me piace molto Kill Bill, che considero un film unico anche se poi per esigenze di mercato è stato diviso in due. Come solo i grandissimi sanno fare, Tarantino mette più piani di lettura all'interno delle sue storie e questa in particolare è la storia di una donna che lotta per il riconoscimento del suo stato di madre, per arrivare alla figlia che le è stata sottratta. La storia parla di quello che è l'amore più potente che esiste al mondo: l'amore di una madre per un figlio. Su questa trama tutto sommato banale, ma anche immortale, Tarantino costruisce una giostra infinita. Una giostra visiva mozzafiato, intelligentissima, divertentissima, emozionante. Adoro Tarantino perché è un ladro di cinema e lo dichiara spudoratamente in ogni suo film.
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I 400 colpi (1959)
Sono venuto qui per farvi vedere soprattutto questo film. Se qualcuno non lo avesse ancora visto, lo invito a farlo e se l'occasione di questo incontro porterà qualcuno a scoprirlo sarò felice. Ho visto I 400 colpi in televisione sulla Rai quando ero bambino, avevo più o meno l'età del protagonista e mi sono identificato in maniera totale con Jean-Pierre Léaud, con il suo vagare per le strade di Parigi, con questo suo senso infinito di solitudine, con questa sua necessità di dire bugie agli altri per costruirsi una realtà migliore di quella che si trovava intorno. Mi identificavo non perché stessi vivendo quelle cose nella mia vita, ma perché mentre le vedevo le stavo sentendo in un'altra vita, quella del protagonista e del film. Ho scelto di mostrarvi il finale del film perché la corsa del bambino per scappare dal riformatorio e il suo arrivo al mare, con quel suo sguardo smarrito, rappresenta perfettamente l'infanzia, quel momento della vita dove puoi diventare tutto. E infatti il bimbo guarda in macchina e quindi lo spettatore. Truffaut qui ha fatto davvero una bella cosa per l'umanità: ci ha lasciato una testimonianza del fatto che quella solitudine che spesso si prova da bambini, anche se si è circondanti da genitori e zii, è un inizio di qualcosa.
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Altrimenti ci arrabbiamo (1974)
Bud Spencer e Terence Hill sono stati una presenza fondamentale nella mia formazione. C'era una sala parrocchiale in Via della Conciliazione a Roma e da ragazzini andavamo a vedere tutti i loro film. Ci stavamo tutto il pomeriggio, per cui vedevamo lo stesso film anche per tre volte di seguito. Da un punto di vista cinematografico, Altrimenti ci arrabbiamo potrebbe essere quasi considerato nella categoria dell'anti-cinema, però c'è una grande energia, una grande forza. E poi a me piacciono tantissimo le scene di distruzione al cinema, dove si rompe tutto. È come il rock, la musica di Skrillex o certa tecno: serve per liberare in te quella parte, che probabilmente è molto connessa con l'infanzia, che ha voglia di sfasciare tutto. Perché poi nella vita invece bisogna costruire. A me piace molto l'idea che la vita sia un processo di costruzione, disfacimento e ricostruzione, ma il cinema ha questa capacità di rappresentare la distruzione in una maniera poetica, dove non si fa male nessuno.
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E poi difenderò sempre questo cinema, in quanto rappresenta l'allegria, la semplicità, l'amicizia nonostante le diversità fisiche. Mi colpì molto quando qualche anno fa andai a Teheran a fare un giro e entrando in una videoteca c'era una parete intera con tutti i film di Bud Spencer e Terence Hill. Il loro è un linguaggio universale. È un cinema onesto per far divertire e a me personalmente ha infuso il senso dell'allegria nelle cose che faccio.
Stand by me - Ricordo di un'estate (1986)
Questo è uno dei film che mi lega molto a mia figlia, l'ho rivisto tantissime volte. Stand by Me in fondo pone un'unica domanda che può essere articolata in più modi: perché la vita è così ingiusta? Perché non c'è giustizia in questo mondo? Perché di questi ragazzini uno diventa scrittore, uno muore e uno ha dei genitori terribili? Esiste una casualità del destino che è struggente. Non fa male, di più. E si propone continuamente. Non c'è mai una promessa, non è vero che si vede cosa diventerai, non si può sapere. E questo elemento il film di Rob Reiner lo racconta davvero molto bene. Ci sono tre modi per affrontare la vita: possiamo scegliere di rinunciare a vivere, di provare a vivere il doppio oppure fare una scelta di mezzo che implica semplicemente farsi trascinare dalle rapide della vita, che in fondo mi sembra forse l'idea più misera. Tra le tre opzioni scelgo la seconda, tentare di vivere il doppio, ma riesco a comprendere anche la prima.
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Yuppi Du (1975)
Ho scelto questa scena della camminata di Charlotte Rampling in particolare perché mi trova d'accordo sulla maniera in cui ci si relaziona alla figura femminile. In questa scena c'è una potenza erotica quasi mistica: lei è contemporaneamente la donna che vorresti spogliare ma è anche la Madonna. Quindi questi elementi, come in tutto il cattolicesimo, coincidono miracolosamente. E Adriano essendo queste due cose insieme, essendo cioè un uomo di grande carica erotica ma anche di religiosità, nel film mette insieme le due componenti molto abilmente. Qui poi Adriano si improvvisa regista, visto che non lo era, e lo fa con una libertà espressiva formidabile. Tanto che al Festival di Venezia dove il film fu presentato, per un pelo, per una ragione fondamentalmente ideologica, non gli venne dato il premio all'opera prima. La campagna di marketing di questo film inoltre fu incredibile e questo aspetto mi interessa molto. Ho studiato il film anche da questo punto di vista, per comprendere meglio il fenomeno.
Un sogno lungo un giorno (1982)
Rispetto a questo film e a questa sequenza finale in cui la donna torna ad abbracciare l'uomo, ho una mia particolare teoria. Nella scena buia dell'appartamento, il protagonista maschile interpretato da Frederic Forrest viene illuminato esattamente nello stesso modo in cui veniva illuminato Marlon Brando in Apocalypse Now, il film precedente di Coppola con sempre Vittorio Storaro come direttore della fotografia. Le due scene sono sovrapponibili dal punto di vista dell'illuminazione. In Apocalypse Now Brando muore e la sua vita è un fallimento, una tragedia. Coppola sviluppa questa visione, la porta avanti e la fa fiorire qui in Un sogno lungo un giorno. Nel film ambientato in Vietnam non si accende la luce perché Brando non ha una donna e un amore intorno a sé e invece Frederic Forrest c'è l'ha un amore, anche se l'ha perso, combatte per esso e poi lo ritrova. Lei torna da lui e improvvisamente ha il potere di illuminare la casa che prima del suo arrivo era completamente buia. Io in questa cosa qui, che sono un'idealista e forse un credulone, ho colto la volontà di Coppola di dirci che l'ultima parola non deve essere quella pronunciata da Brando in Apocalypse Now, orrore, ma un'altra che con orrore fa rima: amore. Questo tema ritornerà poi ad esempio in Peggy Sue si é sposata.
Timbuktu (2014)
Questo è un film che ho amato da matti. Sono uscito dal cinema veramente emozionato e convinto di essermi trovato per la prima volta di fronte ad un film che affronta il tema del terrorismo e delle radicalizzazioni religiose non in maniera approssimativa e superficiale (l'arabo come l'Altro) ma andando in profondità e rappresentando in maniera sfaccettata quella che è la realtà. A Timbuktu, una piccola città nel deserto del Mali dove le persone osservano un Islam per così dire soft e animista, come spesso ho riscontrato quando mi sono trovato nell'Africa subsahariana, all'improvviso arriva l'integralismo e viene imposta la legge coranica. Così tutto cambia nell'equilibrio di quella piccola comunità. Vi consiglio davvero di vedere il film di Abderrahmane Sissako perché è molto chiaro nel modo in cui affronta questo tema. Non lascia però molte speranze, se non la speranza della poesia, che è la speranza della vita stessa che comunque va avanti. Nonostante tutto.
La città incantata (2001)
Considero Hayao Miyazaki uno dei grandi geni di tutta la storia del cinema. Ogni suo film è un capolavoro, di un livello altissimo. Spesso le sue eroine sono ragazzine e le sue storie si incentrano sulle loro dinamiche di formazione. In questa scena la piccola scopre che i suoi genitori si sono trasformati in maiali. E questa è una cosa che a un certo punto succede nella vita: ti accorgi che i tuoi genitori sono dei maiali, nel senso che hanno anche dei lati brutti in quanto sono persone, persone che inevitabilmente si trasformano. Grugniscono anche, non sono solo amorevoli. Miyazaki fa scappare la bambina, impaurita quando vede i genitori in questo stato, che poi però tornerà. Andarsene è la sua grande opportunità per poi tornare e andare alla ricerca dell'umanità dei suoi genitori, che non è più un'umanità idealizzata, come quella che noi abbiamo quando siamo bambini, ma è un'umanità vera. Le storie di Miyazaki spesso hanno degli elementi di totale incomprensibilità: lui inserisce all'interno delle sue storie degli elementi che da adulto non si capiscono, mentre da bambino sì. I bambini rimangono incantati dall'introduzione di un personaggio inutile nel racconto, ma evidentemente funzionale alla poesia. Questa è la grande forza di Miyazaki e dello Studio Ghibli.
Io, Chiara e lo Scuro (1982)
Ho amato tantissimo il cinema di Nuti. Negli anni Ottanta andavo a vedere tutti i suoi film. Mi piaceva la sua poetica, il ritmo del suo linguaggio, il personaggio che si era inventato, come lui raccontava le protagoniste dei suoi film, come si poneva di fronte a loro. E l'ho sempre considerato un grandissimo. Poi l'ho anche conosciuto. Quando facevo Fantastico in Rai con Baudo era un periodo di grande affetto del pubblico nei miei confronti e non potevo più dormire a casa dei miei genitori. Per evitare che venissero disturbati dai fan mi ero sistemato in un residence a Prati, davanti al quale c'era l'ufficio di Nuti e Veronesi. Loro mi avevano riconosciuto e preso in simpatia e capitava di andare al baretto insieme. Nuti era molto gentile ma in maniera anche molto struggente. All'epoca non avevo i mezzi per capire che c'era un problema in lui, che poi si è rilevato essere un problema di alcolismo. Ma di fatto era molto emozionante, siamo anche andati in giro per locali un paio di volte. Al di là di questi aneddoti personali, comunque, credo che il suo cinema sia stato molto importante per una generazione. Per me lo è stato e ho un profondo senso di gratitudine nei confronti del suo linguaggio.
Andrej Rublëv (1966)
Adoro tutto il cinema di Tarkovskij, meno forse l'ultimissimo film (Sacrificio, ndr.). Ma questo, Stalker, Solaris e L'infanzia di Ivan sono dei film incredibili. Se non lo doveste conoscere vi consiglio davvero di scoprirlo, anche se bisogna avere davvero molto amore per il cinema per apprezzarlo, perché i suoi film hanno un tempo molto dilatato, completamente fuori dal ritmo di narrazione di oggi. Un po' come è importante leggere Guerra e pace di Tolstoj se si vuole sapere cosa sia un romanzo, per sapere cos'è il cinema bisogna assolutamente vedere Tarkovskij. Mi piace molto il suo esplicito tentativo di creare poesia attraverso il cinema, di fare un cinema come forma poetica e non commerciale. Lui è come se girasse in versi e non in prosa, i suoi sono poemi per immagini. Mi piacciono poi la sua idea dell'uomo come abissale potenziale inespresso e, in qualche modo, inesprimibile, e la sua idea di Dio. In più mi affascina moltissimo l'uso del paesaggio che fa: lui fa vivere il paesaggio come una presenza centrale in un film in un modo unico e come pochi altri nella storia del cinema.
Taxi Driver (1976)
Questa sequenza in cui Robert De Niro riporta a casa con il taxi Cybill Shepherd l'ho scelta perché c'è una maestria formidabile nel gioco degli sguardi tra di loro. Mi piace il loro rapporto, il fatto che il film sia trasgressivo anche da questo punto di vista. Non è lei che si è emancipata da lui, ma il contrario. Lei è ancora totalmente dentro l'idea di sé. È lui che alla fine di tutta la parabola narrativa del film, dopo che l'ha desiderata, l'ha corteggiata e ha fatto di tutto per diventare l'uomo che lei avrebbe potuto amare, si rende conto che può essere addirittura di più di quell'uomo, perché in qualche modo lei non è meritevole dei suoi sforzi. E quindi la riaccompagna a casa e la saluta senza farle pagare la corsa. Tra le tantissime altre cose, Taxi Driver è anche questa incredibile e originale storia d'amore, che mi ha colpito molto. Oggi è molto importante la capacità di un film di produrre meme, gif animate, ovvero delle brevi immagini che uno può mandare via sms ai suoi amici. E Scorsese è un grande produttore di questi momenti che ti si stampano nel cervello. Bisogna proprio essergli grati. Lungo tutto il corso della sua carriera ha avuto una libertà espressiva incredibile. Pensate che a circa 17 anni era stato anche uno dei cameraman di Woodstock.
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Mad Max: Fury Road (2015)
Questo film è perfetto dal punto di vista della costruzione. È come quando apri un cofano della Ferrari, cosa che tra l'altro a me non è mai capitata. Immagino però che si capisca immediatamente il lavoro e la cura dei dettagli che c'è dietro. Questo è il classico esempio di cinema di puro intrattenimento in cui tutto funziona e in cui l'intrattenimento non ha nulla di sminuente rispetto al concetto alto di arte. Anche per noi musicisti uno degli elementi importanti è quello della progettazione di una canzone, che non è molto distante da ciò che accade in uno studio di design o di ingegneri quando si fa una moto. Come fa a stare in piedi questa cosa? Come fa a funzionare? Deve attrarre, deve emozionare, deve dare piacere. Tutto questo in Mad Max: Fury Road c'è. Il film di George Miller in pratica non ha plot. È quasi come un porno, non c'è una narrazione. Dall'inizio si inseguono e per due ore si danno un sacco di botte senza soluzione di continuità. Ma c'è il piacere, l'eccitazione dell'occhio nel vedere questa cosa fatta molto bene. Poi mi piace molto che il regista abbia più di 70 anni: la sua capacità di mantenere una vitalità dello sguardo di questo tipo mi affascina tremendamente.
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Amarcord (1973)
Ho scritto una canzone che si chiama Le tasche piene di sassi e l'immagine di fondo l'ho rubata da una scena di questo film in cui lo zio Teo, il fratello matto del babbo dell'alter ego cinematografico di Fellini interpretato da Ciccio Ingrassia, ha molti sassi in tasca. Da bambino sono cresciuto con una zia che aveva una sindrome con cui era nata e che fondamentalmente l'ha portata ad essere una bambina per tutta la vita. Per cui la presenza di questa bambina, che in realtà aveva 35 anni ed era persino più grande di mia madre, era un elemento di destabilizzazione totale all'interno della mia famiglia. Una destabilizzazione amorevole, tutti infatti le volevano molto bene, ma noi figli in qualche modo ci sentivamo messi in pericolo da lei perché eravamo sorpresi dalle sue risposte, dalle sue follie. Fellini ha chiamato lo zio del film Teo, che vuol dire Dio, perché in realtà la presenza dell'irragionevole all'interno della famiglia è in qualche modo un dono che Dio ci fa. Al di là del fatto se Dio esista o meno, si tratta comunque di un dono che riceviamo. La presenza di questa mia zia, che si chiamava Silvana, ha segnato in me fin da piccolo l'idea che fossimo tutti un po' matti, che tutti avessimo un potenziale di diversità assoluto. Quindi, quando ho visto questo film, è come se Fellini avesse messo ordine a tutte queste emozioni random che vivevano dentro di me.