"I tempi sono duri per i sognatori." La frase è tratta proprio da Il favoloso mondo di Amélie e campeggia sulla parete di Casa Alice. Jean-Pierre Jeunet è un sognatore, prima ancora che un uomo di cinema. Così come dei sognatori ad occhi aperti sono tutti i suoi personaggi, da Amélie fino allo straordinario T.S. Spivet, protagonista del suo nuovo film presentato fuori concorso ad Alice nella Città, la sezione del Festival di Roma dedicata ai giovani. E di giovani ce n'erano tanti a Casa Alice ad assistere alla sua master class, dove il regista della Loira ha parlato dei suoi film , della sua carriera, e di che cosa vuole dire per lui "fare" cinema.
Il cinema del fare
Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet è un pretesto per ripercorrere l'altrettanto straordinario viaggio della vita e della carriera di Jeunet. Legato da sempre ad un suo riconoscibilissimo tratto estetico, Jeunet è un vero appassionato, un uomo di cinema e un inventore a modo suo come il piccolo T.S. del film. Uno che ama 'fare' che è qualcosa di più del semplice 'essere' regista. "La cosa interessante è che ho iniziato a a fare cinema ancora prima di andare al cinema a nove anni", ci racconta Jeunet. "Fondamentale è il piacere la voglia di fare le cose: a chi mi dice 'voglio diventare regista' io gli rispondo 'ti piace fare cinema o essere regista'. Se avete voglia per voi oggi è molto più facile - dice ai ragazzi - basta avere un telefono o una videocamera... ai miei tempi era moto più difficile. È vero che la tecnica semplifica oggi, ma ci vogliono comunque idee buone, se ne avete parliamone. Picasso diceva 'i giovani hanno buone idee ma non sanno cosa farne'". Spivet si chiede nel film come fanno gli uomini a costruire tante cose perfette quando i loro comportamenti sono sempre così irrazionali.
"Il cinema e misto di arte e tecnica - dice Jeunet - ho cominciato senza conoscere niente, da autodidatta ed è stato utile perché quando si fanno cose senza conoscere la tecnica si fanno degli errori ma da questi si impara. Io ho iniziato col cinema di animazione, potevo fare film a casa mia in cucina, cosa che ha fatto anche Tim Burton. Foutaises è stato il mio primo cortometraggio che mi ha permesso di iniziare a girare video musicali e spot che mi hanno dato la notorietà sufficiente per fare Delicatessen, il mio primo film. Ero un patito dell'elettronica, costruivo da solo i miei mixer per l'audio: non dimenticate mai il piacere del fare, creare qualcosa voi stessi, con le l vostre mani. Come il protagonista mi piace creare, disegnare, io disegno personalmente tutti i miei storyboard. Credo molto nel concetto di 'lavoro' e di amore per quello che si fa".
Cinema e sogno
Già ne La città perduta si parla di adulti che rapiscono i bambini per rubare loro dei sogni. Un sognatore dicevamo, come i suoi personaggi, da Amélie a Spivet, sognatori ad occhi aperti che vedono cose che gli altri non vedono. "Il sogno ha senso come metafora dell'immaginazione e della fantasia. Mi piace del cinema che il regista possa dare la SUA visione del mondo, non mi interessa la realtà, allora preferisco i documentari. Ai cineasti francesi piace molto invece il realismo, io preferisco gente come Fellini, Kusturica, Tim Burton, David Lynch, mi piace trasformare e dare la mia versione".
L'esperienza americana
Con l'ego tipico degli artisti dalle personalità forti, il rapporto con gli studios di Jean-Pierre Jeunet e stato sempre a dir poco controverso. Il fatto di non accettare mai nessun tipo di compromesso ha fatto sì che l'esperienza di Alien: La clonazione rimanesse alla fine l'unica. "Io stavo già scrivendo Amélie, non parlavo neanche inglese, ho capito la storia di Alien solo vedendo il dvd tempo dopo. È stata un'esperienza interessante, l'ho fato perché mi hanno lasciato libertà creativa diciamo quasi al 100%, oggi non sarebbe più possibile per ma fare un film di un grande studio. All'epoca ho detto no anche a Harry Potter proprio perché era già tutto pronto, fatto, deciso, non avrei potuto aggiungere o togliere nulla".
T.S. Spivet sembra un film americano ma non lo è, è una produzione franco-canadese, e il regista in Francia per legge ha diritto al final cut, che per Jeunet è una condizione sine qua non, dopo le esperienze con la distribuzione americana della Miramax. "Harvey Weinstein ha detto che nel cinema non c'è democrazia ma la dittatura, ma io non negozio con i terroristi. È come se un gallerista dicesse all'artista 'adesso ridipingo il quadro e ci metto più rosso'. Per Amélie è andata meglio, aveva avuto un tale successo per cui non ha osato, ma a causa sua e delle sue politiche invadenti in fase di promozione non abbiamo vinto l'Oscar, quando avevo già in tasca la lettera di felicitazioni di Spielberg".
Un mancato Harry Potter dunque, ma non solo. Forse non tutti sanno che Jeunet ha passato anni sul progetto di Vita di Pi, poi realizzato da Ang Lee, tanto da considerarlo un film quasi suo. "Avevo scritto una versione che piaceva molto alla Fox, ma era troppo caro - ricorda il regista - avevo già tutti gli storyboard, avevo trovato anche finanziamenti in Francia ma a causa del cambio tra euro e dollaro non arrivavamo comunque al budget. La cosa buffa è che io ho dovuto rinunciare per un budget di 60 milionidi dollari, mentre Ang Lee ha girato con 159 milioni: questo perché Taiwan ha pagato la metà perché lui è amico del presidente". E' uno schietto Jeunet, che non te la manda a dire. "La parte centrale è tecnicamente fantastica, all'epoca non avremmo comunque potuto girare quelle scene con la tigre in digitale. Invece l'inizio e la fine sono solo un copia e incolla del libro: peccato, il nostro adattamento era meglio. Vorrei pubblicare il mio storyboard ma la Fox non mi ha mai risposto in proposito".
I suoi film e il successo, da Amélie a Bazil
Effettivamente la pretesa di rimontare un film come Il favoloso mondo di Amélie sarebbe stato troppo per la presunzione di qualunque potente di Hollywood, visto il successo clamoroso avuto dal film, che è poi divenuto il quinto film straniero più visto negli Stati Uniti. "Cose che capitano forse una sola volta nella vita - dice Jeunet - è diventato un fatto sociale, tutti ne parlavano, politici, personalità, è stato visto anche all'Eliseo. Non so se oggi sarebbe possibile, oggi c'è molto più cinismo in giro, forse oggi Amélie risulterebbe ridicola. C'è un bar a Montmartre e a distanza di 12 anni ci sono ancora frotte di turisti che fotografano perché era il bar di Amélie. Un giorno avevo appuntamento con Jodie Foster in quel bar per il casting di Una lunga domenica di passioni, aspettavamo sul marciapiede il taxi, e delle persone ci hanno chiesto di scansarci per fotografare il bar!".
Una lunga domenica di passioni appunto, è stato per Jeunet il coronamento di un sogno vista la fissazione fin da bambino per la prima guerra mondiale. "Mi piaceva molto il romanzo, ma il film era molto costoso da realizzare. Solo grazie al successo di Amélie, la Warner mi ha autorizzato a girare in francese, con il final cut, che per me è imprescindibile. La guerra del '15-'18 è un'antica mia fissazione, al punto che mi ero convito di avere avuto una vita precedente e di essere morto in quella guerra. Questo film mi ha aiutato a liberarmi dalle mie ossessioni". Un film quindi fortemente voluto e dopo il quale Jeunet aveva bisogno della leggerezza di una storia quasi per bambini come quella de L'esplosivo piano di Bazil, arrivato dopo altri cinque anni. "Bazil é stata una reazione a questo film - precisa Jeunet - avevo voglia di fare un film di animazione avendo come modello la Pixar. Il problema è che faccio sempre film considerati per bambini, in realtà sono una via di mezzo, sono film abbastanza complessi.
Lo stile Jeunet
A chi gli fa notare che i suoi film si somigliano un po' tutti, Jeunet ammette candidamente di essere "uno di quelli che fanno sempre la stessa cosa", e aggiunge " in questa categoria metto sempre Fellini, Tim Burton, David Lynch. E poi ci sono quello come Ang Lee, Roman Polanski, bravissimi, grandissimi, stile meno marcato ma sicuramente carriera più lunga perché sanno rinnovarsi. Io ho paura che farò film in stile Jeunet per tutta la vita". Un uomo di cinema a tutti i livelli del processo produttivo dunque, dagli storyboard che disegna da solo, alle sceneggiature che cura sempre personalmente. "Mi piace scrivere i copioni, cosa che può essere considerato un altro mestiere, come dice Stephen Frears. Io scrivo sempre i miei anche quando adatto storie di altri". E poi segue maniacalmente di persona anche il processo tecnico e il casting. "Intanto bisogna avere un'idea di quello che cerchi, dopodiché il casting diventa fondamentale, non si può sbagliare nella scelta. Anche per i piccoli ruoli. In Amélie c'è il personaggio che controlla i biglietti, ne ho visti 25 solo per quel ruolo, anche se diceva solo 'biglietto prego'".
Fondamentale l'incontro con il 3D per questo suo ultimo film; anche sotto questo aspetto oramai abbiamo capito che il lavoro anche nella post-produzione ha come obiettivo l'eccellenza assoluta. "Abbiamo girato in 3D nativo, non come fanno tutti oggi aggiungendolo in post produzione - dice non senza una punta di orgoglio - quando riprendi un albero con milioni di foglie ci vuole poco ad applicare l'effetto 3D posticcio, ma non sarà mai come averlo girato direttamente in quel modo, non potrai mai avere l'effetto stupefacente e meraviglioso che cercavo io".
E allora visto che siamo davanti ad una platea di giovani a Casa Alice, non possiamo non chiedergli che cosa dai giovani uno come lui si aspetta. "Mi aspetto dai giovani che mi stupiscano e mi sconvolgano. Come ha fatto il regista di Whiplash, un film che ho visto al Festival di Deauville: Damien Chazelle ha solo 29 anni e sono rimasto sconvolto dal suo talento".