Ivan Cotroneo: a essere un esemplare unico non c'è niente di male

Protagonista dell'appuntamento di oggi con Parole di Cinema al Napoli Film Festival è Ivan Cotroneo, e la sua prima opera come regista, quel 'La kryptonite nella borsa' che parla di lui e di tutti i bambini che, dietro gli occhiali, nascondono un mondo pieno di forza e sensibilità.

Uno degli appuntamenti maggior successo del Napoli Film Festival è quello con l'iniziativa Parole di Cinema, che oggi ha visto protagonista Ivan Cotroneo e il suo film d'esordio alla regia, La kryptonite nella borsa. Alla presenza di tanti studenti universitari e liceali, l'autore ci ha introdotto alla filosofia che regge il film, una sorta di percorso di formazione per il giovanissimo Peppino, un bambino emarginato a scuola per la propria miopia e con una famiglia non certo esente da problemi. C'è molto di autobiografico in questa opera prima, nata come romanzo nel 2007 e poi trasposta per il cinema, e forse è proprio la sensibilità, l'autenticità, seppur sognante e ricca di suggestioni, dello sguardo del piccolo protagonista, e quindi anche del regista, a rappresentare la forza del film. Un film che ha fatto ancora ridere e commuovere la platea, e sul quale c'è tanto da dire, come ha dimostrato l'appassionato dialogo tra Cotroneo e i giovani spettatori.

Vuoi spiegarci il percorso che hai affrontato per arrivare a questo film e a questa storia? E, più in generale, il tuo percorso di avvicinamento al cinema?
Ivan Cotroneo: Io ho studiato al Centro Sperimentale, sceneggiatura, e subito dopo ho iniziato a scrivere, e anche a fare l'assistente di regia, ad esempio per Pappi Corsicato. Inoltre ho scritto dei romanzi, e ho diretto anche un corto, di cui però non mi sentivo soddisfatto. Ho continuato a scrivere ancora, che è una cosa che mi piace tantissimo fare perché nella scrittura di un libro si è completamente liberi. E' anche vero, però, che è un processo che si fa in grande solitudine. Invece un film è un percorso di confronto, molto più complesso. Nel 2007 è uscito il mio terzo romanzo, La kryptonite nella borsa, e Francesca e Nicola, i due produttori che di solito seguono Sorrentino, lo hanno letto e apprezzato molto. Mi hanno chiesto, allora, di scrivere una sceneggiatura per il cinema, e si trattava di una trasposizione non facile, perché è una storia corale, fatta di tanta vita di quartiere. Mentre ne parlavamo io continuavo a descrivere come avrebbe dovuto essere qua la scenografia, là i costumi, quali attori avrei voluto nei vari ruoli, le musiche che avrei scelto, da David Bowie a Peppino di Capri. Alla fine, si sono dovuti arrendere, e dirmi: fallo tu. Mi ci sono buttato completamente: mi era già capitato di pensare alla regia, ma non mi ero mai sentito pronto prima. Qui avevo alle spalle due produttori attenti e capaci, e in più ero forte della storia, che era particolarmente vicina a me, perché anche io sono stato bambino a Napoli negli anni Settanta, avevo anche io un rapporto particolare con i miei zii, che fumavano, baciavano tutti, mi mettevano in situazioni un po' eccessive per me. Questa possibilità di raccontare il mondo con gli occhi di un bambino mi ha convinto, ed è una esperienza che continua ad essere bellissima ancora adesso, che seguo il film nelle sue varie proiezioni, anche all'estero. Mi piace vedere la reazione degli spettatori, che spesso mi fa cambiare idea riguardo i miei prossimi progetti, mi fa capire dove ho fatto bene e dove invece ho commesso degli sbagli. Io non credo alle persone che non vogliono confrontarsi con gli altri, credo che sia indispensabile vedere l'effetto che la propria opera produce sul pubblico.

Hai portato il tuo film anche ad Hong Kong, vero?
Ivan Cotroneo: Si, sottotitolato in inglese, e, anche se le commedie sono i film più difficili da apprezzare sottotitolate, per la concordanza con i tempi comici, è andata bene. Ferzan Ozpetek mi aveva avvertito che gli orientali ridono tantissimo, ed effettivamente è incredibile vedere quanto si divertano, anche magari in punti in cui non ci sarebbe proprio niente da ridere...

Complimenti per il tuo film, che ha fatto vedere una Napoli diversa dalla sua abituale immagine. Come hai risolto la scena finale, quella del volo sulla città di notte? E hai avuto difficoltà ad acquisire i diritti per la colonna sonora?
Ivan Cotroneo: Sono contento che sia piaciuta l'immagine che ho voluto dare di Napoli, soprattutto perché ho voluto fare questo film anche per avere la possibilità di mostrare una Napoli diversa, che non fosse solo quella della cronaca. Una storia può raccontare un intero mondo che, se non vero, può senz'altro essere possibile: è per questo che ho voluto sganciarmi dalla cronaca, e ho pensato che fosse meglio prendersi qualche libertà. Sia il libro che il film sono ambientati nel 1973, ed è un anno che ho scelto deliberatamente, perché nel 1973 a Napoli c'è stata l'epidemia di colera, e io ho subito molto quel momento, che nel mio film però ho deciso di non inserire, per evitare una sovraesposizione dei fatti e per poter affrontare quel contesto da un punto di vista più sentimentale. Ogni volta che rivedo il film, e penso alla sua fotografia, di cui si è occupata una persona che ha fatto anche tante altre cose su Napoli, mi rendo conto che questo era uno dei tasselli che mancavano a descriverla.
La scena finale l'abbiamo girata in studio, con gli attori sospesi a quattro metri d'altezza davanti a un green screen. Poi vi abbiamo sovrapposto delle immagini girate da un elicottero, di giorno, così come di giorno era girata la scena sul tetto del Sant'Orsola. Per ottenere l'effetto della notte, non ci siamo affidati alle metodologie più moderne, perché volevamo dare l'idea di quello che un bambino degli anni Settanta crede che sia un volo sulla città.
La musica per me è una voce emotivamente molto importante dal punto di vista narrativo. Anche in Tutti pazzi per amore, che ha anche delle parti musical, ho sempre insistito, sin dall'inizio, su questo aspetto. Certo la musica ha un costo, bisogna pagare i diritti agli artisti, alle etichette, ma in questo caso risultavano indispensabili, tanto che fin dalla prima stesura avevo inserito tutti i brani nella sceneggiatura, da Iggy Pop a David Bowie a Mina, e ho consegnato alla produzione un cd con tutti i pezzi, in modo che potessero ascoltarli mentre leggevano. All'inizio c'era una certa preoccupazione per il budget, ma per me era indispensabile che quelle musiche ci fossero e, fingendo di sembrare democratico e aperto al dialogo, ma non essendolo per nulla su questo, alla fine l'ho spuntata. A volte siamo stati anche fortunati, perché per esempio Peppino di Capri ci ha aiutato tanto, ma è interessante anche sapere che non sono sempre le musiche straniere le più costose: ad esempio, quella che abbiamo pagato di più è stata la canzone di Mina. Per i titoli di coda io volevo una canzone dell'epoca, ma che non avesse un'aria nostalgica: per questo abbiamo chiesto ai Planet Funk di fare una cover di These Boots Are Made for Walking, che nel film è interpretata anche da Dalida, e sono molto contento che questo brano abbia avuto successo anche al di fuori del film. Tutto questo ve lo dico per spiegarvi che per me la parte della produzione musicale è molto appassionante, a volte compro addirittura la colonna sonora di un film prima di vederlo, e sto parlando di quei registi del cui gusto mi fido a scatola chiusa, come Danny Boyle o Baz Luhrmann.

Quali sono le difficoltà pratiche a livello produttivo, specie se un film beneficia di contributi istituzionali? Ci sono delle imposizioni?
Ivan Cotroneo: Per quanto mi riguarda, sono stato molto fortunato, perché i miei produttori mi hanno sempre protetto dalle ingerenze esterne. La mia idea iniziale è stata preservata in tutto, dal casting al budget, che offriva sì buone possibilità, ma non enormi. Io, d'altra parte, mi sono impegnato perché sapevo su cosa non avrei dovuto sgarrare. In primis sulla sceneggiatura, sulla base della quale spesso si realizzano film troppo lunghi, che poi necessitano di forti tagli in fase di montaggio. E questo è un doppio danno: innanzi tutto economico, perché tutto quello che viene tagliato proviene da giornate di lavoro, che si pagano, e poi dal punto di vista umano, perché il lavoro di tante persone rischia di non essere mai visto. Io sono riuscito a ottimizzare questo aspetto, tanto che il primo montaggio durava un'ora e quarantacinque minuti, e in tutto ci sono state solo due scene tagliate, di cui una era stata girata già di per sé in più perché ci avanzava un po' di tempo. Quindi no, non ho ricevuto imposizioni, ma anche io sono stato molto attento a come muovermi. Io tenevo moltissimo alla scena della giostra, per la quale si è dovuta sgombrare tutta la piazza, chiudere la zona al traffico, ma era molto importante riuscire a realizzarla così. In generale ho cercato di non spendere soldi dove si sarebbe potuto fare altrimenti, senza pregiudicare il risultato finale: ad esempio, nell'orchestrare le diverse morti dei pulcini. Oppure, dato che la pioggia è uno tra gli effetti più costosi da realizzare, ho utilizzato un tipo di finestra grazie al quale non si riuscisse a capire quanto verosimile fosse lo scorrere dell'acqua sui vetri. Al momento dell'uscita del film mi sono dovuto scontrare con il problema della distribuzione: nel nostro caso si trattava di 120 copie, che hanno subito, come tanti altre pellicole, il dramma della scomparsa delle sale cittadine in favore dei multiplex. Lì lo strapotere è delle pellicole statunitensi, che escono in 700-800 copie, perché, a differenza che in Francia, qui non c'è nessuna legge che tuteli le produzioni nazionali. Questo era un lavoro in cui mi riconoscevo, che ero riuscito a realizzare con il contributo di tanti, che mi aveva reso felice per la fiducia che vi avevano riposto tutti i suoi protagonisti, e volevo che fosse visto. L'anno scorso è stato molto ricco di opere prime italiane, e tutte hanno subito questo stesso destino, affrontato le stesse difficoltà. Io ho seguito molto il percorso del film in sala, e molte città hanno accettato di distribuirlo perché sapevano che ci sarei stato anche io, ma non si può chiedere a tutti gli autori di fare questo. Bisogna dare una possibilità a tutti, e poi, certamente, sarà il mercato a decidere e sarà il pubblico a giudicare, ma la possibilità ci deve essere.
Quali sono le differenze con lo scrivere per la televisione?
Ivan Cotroneo: La scrittura per la TV mi piace tantissimo, specialmente perché sono appassionato di serialità, in particolare quella straniera, e poi perché avere a disposizione 26 puntate per sviluppare i propri personaggi è bellissimo. Mi piace anche perché la televisione ti permette di arrivare a un pubblico molto ampio, di 6, 7 anche 8 milioni di spettatori, distribuito per di più in maniera molto eterogenea, ed è anche per questo che sono così fiero di aver potuto parlare di temi come l'omosessualità, e di averlo fatto in maniera positiva. Al cinema non credo avrei potuto. La televisione è strutturata più come un'industria, mentre il cinema è ancora legato all'autorialità. Tutto, al cinema, parte dal regista, non c'è una circolazione delle sceneggiature come può, invece, succedere in America, dove il valore della scrittura cinematografica è maggiormente riconosciuto. In TV l'atteggiamento è più simile a questo. Gli scrittori portano le idee, poi viene scelto il regista. Per chi scrive, questa è una grande libertà, specie nell'ambito di un racconto seriale. Al cinema invece ruota tutto intorno al regista, e certamente mi piace molto anche aiutare i registi ad esprimere quello che hanno da dire.

Ci sono anche delle differenze tecniche tra la scrittura per il cinema e quella per la televisione?
Ivan Cotroneo: In televisione bisogna tenere conto che lo spettatore è più distratto, e certamente il contesto offre più possibilità di sperimentazione, è una nuova frontiera da affrontare con entusiasmo, come abbiamo fatto per Tutti pazzi per amore. Si può giocare con il linguaggio, ci si può divertire, anche se mi piacerebbe che anche qui ci fosse un ambiente più libero, come negli Stati Uniti con la TV via cavo. Si potrebbero affrontare argomenti ben diversi rispetto a quelli permessi dalla TV generalista, ma in Italia le grandi produzioni vengono sempre da Rai 1 o Canale 5, che sono proprio i più generalisti di tutti.

Quanto c'è di autobiografico in questo film?
Ivan Cotroneo: Innanzi tutto io credo che tutta la scrittura sia autobiografica, non ho fiducia in chi dice di lavorare completamente nella finzione. Persino quando scrivevo per gli altri, in un contesto completamente deciso da altri, non riuscivo a non essere autobiografico, a non mettere quello che ero, le mie paure, i miei problemi anche quotidiani nella scrittura. Tutto finisce in quello che scrivi, perché è l'unico modo che hai per abbracciare un personaggio diverso da te. Anche se dovessi parlare di una signora anziana di Bolzano, cercherei di metterci qualcosa dei miei nonni, qualche mia personale paura riguardo la vecchiaia, ma ci sarebbe sempre un aggancio privato. Questo film, e prima ancora questo libro, erano fortemente autobiografici: innanzi tutto ho scelto il punto di vista, fortemente astratto, offerto dallo sguardo di un bambino, e il resto è venuto di seguito. C'è anche molta aneddotica: come dicevo prima, sugli zii, e poi sugli occhiali. Quello è un problema con cui ho convissuto a lungo, e anche se adesso porto le lenti a contatto ricordo bene il disagio di essere l'unico a portare gli occhiali; il sentimento di esclusione, la paura di essere differente e la volontà di essere amati per quello che si è, che è poi l'argomento di tanti altri miei personaggi, come quello di Riccardo Scamarcio in Mine vaganti. La paura del giudizio e dell'abbandono appartiene a me, come appartiene a tutti, così come la paura di aver fatto la scelta sbagliata per essersi fidati del giudizio altrui, la paura che affrontare una strada diversa, meno battuta, sarebbe invece stato molto meglio.

Come hai lavorato sui personaggi secondari per renderli così belli e credibili, quando di solito sono invece piatti?
Ivan Cotroneo: Tutti noi cerchiamo di ripetere quanto di bello abbiamo visto fare agli altri, e io ho sempre avuto la passione per i personaggi cosiddetti secondari, che spesso sono in realtà le colonne portanti della storia, coloro che veicolano il tema principale, ne costituiscono la forza. Ad esempio ne La finestra sul cortile, o in Fargo: la violenza di quel finto rapimento sarebbe stata possibile solo in quel clima così rigido, e si possono contare almeno sei personaggi secondari caratterizzati dalla stessa follia, e che servono a raccontarla. Io cerco di applicare la stessa logica, di permeare tutti i personaggi con l'idea generale della storia, che in questo caso è la ricerca della felicità. Anche dietro alle battute, alle scene divertenti, c'è questa intenzione generale: come quando si scopre che lo zio, considerato da tutti un genio, in realtà è tutt'altro. Certo, fa ridere, ma suggerisce anche che la sua infelicità potrebbe essere dettata dalle aspettative degli altri, che potrebbe rovinarsi la vita per paura di non esserne all'altezza. Non esistono parti piccole, e in questa mia idea sono stato confortato dall'atteggiamento di tutti gli attori, anche di quelli che dovevano fare pochissime pose, ma che sapevano di essere comunque importantissimi. Tutti raccontano qualcosa, anche con una sola battuta: ad esempio la donna che vende sigarette di contrabbando dimostra come il mondo operaio si potesse amalgamare senza difficoltà con quello piccolo-borghese.

Quanto è difficile girare una storia ambientata nel passato? Quali sono state le problematiche più impegnative?
Ivan Cotroneo: E' certamente complicato, sia per quanto riguarda i costumi che le location. L'ambientazione napoletana comunque ha aiutato, perché i vicoli del centro storico sono luoghi senza tempo. Ma siamo stati anche molto attenti ai dettagli: ad esempio i mobili della casa di Peppino sono degli anni Sessanta, perché i suoi genitori si sono sposati allora, e ai tempi non c'era l'Ikea. Abbiamo lavorato molto con la Film Commission, ma soprattutto abbiamo fatto un grandissimo lavoro di ricerca, e scelto di utilizzare solo costumi originali dell'epoca. E' molto faticoso pensare che in ogni momento si debba avere il reparto costumi a disposizione, ma le scene più difficili sono senz'altro quelle di massa, in cui c'è tantissimo lavoro da fare sulle comparse. Mi ha poi stupito la diversità dei corpi dei bambini di oggi rispetto ai bambini che eravamo noi: adesso fanno tutti sport, mentre noi eravamo un po' rachitici, ed è stato difficile trovare dei bambini fisicamente credibili. Poi in molte occasioni ci siamo ingegnati per rendere coerente l'ambientazione: degli infissi troppo recenti sono stati nascosti dai panni stesi, i condizionatori coperti con delle scatole. A volte è stato per forza necessario usare i mezzi digitali, come per cancellare delle antenne paraboliche, ma abbiamo preferito evitare il più possibile questi interventi costosi.

Come si impara a scrivere per il cinema? Il Centro Sperimentale è l'unica strada?
Ivan Cotroneo: Si impara come si impara a scrivere in generale, scrivendo molto e facendo tante prove. Il Centro Sperimentale è una scuola molto seria, che sta diventando negli anni sempre più bella, ed è un percorso che consiglio, perché offre tutto quello che serve anche a chi non proviene da un ambiente artistico, come per esempio è successo a me, che ho studiato Legge. Ci sono poche cose tecniche da sapere, ma è utile essere degli spettatori attenti di film, interrogarsi sul perché un romanzo diventa film, sul perché di certe soluzioni, come quelle di tagliare alcuni capitoli o personaggi: si tratta di necessità o di una scelta filosofica? Questo è un bel punto di partenza. Ma non bisogna sottovalutare anche l'importanza delle piccole scuole: è grazie a una di queste se io sono riuscito ad essere ammesso al Centro Sperimentale. Non bisogna, insomma, farsi sfuggire nessuna occasione di apprendimento. I libri sulla sceneggiatura a volte sono troppo vincolanti: la sceneggiatura non è, per citare L'attimo fuggente, una questione di ascisse e ordinate, di teorie da applicare rigidamente. Si impara molto più facendo, anche soltanto dei corti da recitare con gli amici, che dai libri. Poi, per essere meno banale, vi consiglio di far leggere il più possibile quello che fate agli altri: è la cosa più difficile da fare, ma anche la più interessante. Bisogna accettare le critiche perché la sceneggiatura si nutre proprio di questo: è impossibile trovarne una che non sia stata rimaneggiata mille volte. A volte gli attori, anche per loro scaramanzia, si rifiutano di dire una battuta in un determinato modo, ed è un atteggiamento da rispettare, a volte una richiesta di aiuto, e bisogna accondiscendere, anche perché comunque, anche insistendo, non si otterrebbe ciò che ci vuole. Non bisogna essere troppo duri nel rifiutare le critiche, ma neanche essere delle spugne pronte ad assorbire qualunque suggerimento. Spesso gli altri hanno da dire cose intelligenti perché intervengono alla fine di un processo, hanno una distanza con quello che leggono che all'autore ovviamente manca. Quindi bisogna mettersi in discussione, senza dimenticare che nessuno possiede tutta la verità.